La casa è di chi l’abita. E il tempo è dei filosofi. La canzone di Francesco Bertelli – testo scritto in ricordo della Comune di Parigi – «versione» Youngang su cui scorrono i titoli di coda è quasi il controcampo del film di Luis Fulvio, premiato al Laceno d’oro di Avellino che si è appena concluso (edizione online ovviamente) – un po’ come la dedica finale che per scoprirla si deve arrivare in fondo. Di cosa si parla lo sappiamo invece subito, dal titolo La casa è di chi l’abita – Porta Pia occupata. Una casa occupata dunque, a Roma, nel quartiere borghese intorno a Piazza Fiume, davanti a quella «breccia» icona dell’unità d’Italia: negozi, bar, ristoranti, musei, le vie di ambasciate e ministeri importanti si snodano appena intorno. Ma il film ci porta altrove, anche se l’esterno romano – tra manifestazioni e «guardie» all’entrata dello stabile in caso di improvvise irruzioni di vigili o quant’altro, non manca. Dentro c’è invece la realtà della casa coi suoi «rituali», le regole, gli sprazzi privati di ciascuno e la definizione di una norma collettiva che avviene nelle assemblee partecipate, durante le quali vengono affrontati e discussi i punti chiave che costruiscono – e garantiscono – questo universo. Si parla delle iniziative da intraprendere, delle leggi sui permessi di soggiorno che riguardano i molti immigrati che vi abitano, degli obblighi che ciascuno deve assolvere per non mettere a rischio sé e agli altri, del confronto con le istituzioni cittadine, e via dicendo.

Siamo prima del Covid, eppure quanto accade sullo schermo non ci appare mai, neppure un istante – se non nelle nostalgie di ciascuno di noi per quel tempo – «datato». Questo perché il film di Luis Fulvio – già autore di un magnificamente irrequieto «documento» sul ’77 – ’77 No Commercial Use – non è un film su una occupazione; piuttosto a partire da lì, e in una situazione precisa, quella di Porta Pia occupata, prova a capire come si può raccontare questa esperienza, con quali immagini, da che punto di vista. Ogni passaggio così prima ancora che definire una «storia» pone una domanda al proprio gesto di filmare, al proprio ruolo di filmmaker, al dialogo che si instaura tra la macchina da presa e il mondo.

ALLA BASE c’è una relazione di reciproca fiducia con gli occupanti – altrimenti non potrebbe essere per entrare e riprendere. E a quello che è uno sguardo «comunitario» si aggiungono spesso momenti privati, di vita nei singoli spazi, o figure che tornano più spesso di altre, che assumono all’interno del «quadro» una presenza maggiore. Però il regista mantiene sempre la sua posizione rispetto alla materia che sta affrontando, e guarda wisemaniamente a questa «istituzione» e alla sua battaglia per un diritto fondamentale, la casa, all’interno della quale affiorano altri conflitti della nostra società, economici, sociali, che la rendono una possibile lente sul mondo. Il punto, o meglio la scommessa, è proprio questo: far sì che tutto ciò sia visibile, senza sovrapporre giudizi, interpretazioni, formati ideologici, e anzi lasciando posto alle contraddizioni che inevitabilmente si presentano.

LA SOGLIA dietro quell’uscio anonimo su una strada di Roma si moltiplica: è un dentro e un fuori sui cui bordi si gioca una fortissima tensione che riguarda la rappresentazione di un’esperienza, gli stereotipi che spesso la circondano, la retorica o l’enfasi che mette da parte e cancella ciò che ne è la pratica. Ci sono persone molto diverse a Porta Pia, che arrivano da paesi diversi, dall’Africa, dall’America latina, o anche da altre zone di Roma, che hanno esperienze, vissuti, esigenze, aspettative diversi: a unirli è questa esigenza abitativa a fronte della mancanza di risposte da parte dello stato. Ma come funziona una convivenza? Ecco, questa idea di «comunità» mai celebrativa è quanto il film riesce a mettere a fuoco con precisione anche nelle sue difficoltà, o forse a partire da queste. E attraverso lo spostamento dello sguardo riesce a darne una narrazione viva nella quale arrivano con forza i sentimenti del nostro tempo, quei bisogni che non dovrebbero mai essere messi da parte, e dei quali quanto viviamo oggi, hanno mostrato con forza ancora maggiore l’instabile precarietà.