Tre anni di assenza non sono poi così lunghi per un cantante come Ian Bostridge abituato alla riflessione filosofica. Tanto è stato, infatti, il tempo che ha tenuto lontano il tenore inglese dal Teatro alla Scala e poteva anche esser meno se non fossero pervenute circostanze sfortunate. Allora accompagnato dal sodale di tanti concerti e registrazioni, Julius Drake, eseguì un programma amicale che vedeva appaiati Schumann, con tra gli altri gli amati Liederkreis op. 24, e Brahms.

Lunedì scorso, invece, nell’inaugurale recital di canto del nuovo anno scaligero, ha spalmato in due parti un quasi “tutto heine” accompagnato, stavolta, dal pianista, compositore e direttore d’orchestra Thomas Adès per il quale Bostridge qualche anno fa vestì i panni di Caliban in “The Tempest”. A tal proposito il compositore londinese tornerà presumibilmente in veste di direttore d’orchestra in una delle prossime stagioni della Filarmonica della Scala. Comunque, proprio la coppia di esecutori per il loro stato, in una Scala fin troppo turistica e scanzonata depredata dalla sua sacralità dall’imperversare di flash e selfie anche durante il concerto, suscitava più di una suggestione artistica ed intellettuale e non solo per il gustoso siparietto dello scambio di attacchi in scaletta. Soprattutto da parte di Bostridge si è notata l’esigenza di misurare il suo canto alla propria minuta fisicità, che nei fatti sposta il recital in una zona ambigua e più accattivante per il pubblico meno smaliziato, nondimeno accontentando i più vigili in un bizzarro accostamento di pose che, da un lato, reinterpretavano in chiave storica le performance di Britten e Pears; mentre dall’altro, restringendo l’obiettivo al solo cantante, mescolavano l’eleganza di un Morrissey alla scompostezza di un Joe Cocker in “grisaglia”.

E la musica? Emergeva in tutta la sua carica poetica, criticamente subentrava ancora una volta “nelle strutture stesse della composizione musicale”, come notava già Mario Bortolotto nel mettere a referto storicamente il genere del Lied. Tutto ciò in “decisiva autenticità” con la prima parte, prelevata dai Schwanengesang D 957 di Franz Schubert, pubblicati postumi nel 1829, e da un pugno di lieder di Liszt che spezzavano a metà il diciannovesimo secolo (soprattutto “Vergiftet sind meine Lieder“, “Im Rhein“ e “Ihr Glocken von Marling“), e con la seconda, monografica, centrata sui Dichterliebe op. 48 di Robert Schumann che slargati agli estremi “Lehn deine Wang“ ed “Es leuchtet meine Liebe“ ricollegavano la consequenzialità temporale e compositiva dei brani.