La «transizione ecologica» si gioca anche negli abissi, in particolare nell’Oceano Pacifico, dove le compagnie di estrazione sono a caccia dei metalli preziosi che servono per produrre tecnologie. Diventeranno i «combustibili fossili» del futuro? Un rapporto di Sea at Risk

Nel cuore del Pacifico orientale le acque sono sempre più agitate e c’è un gran movimento di navi, capitali e interessi. Succede così che una delle principali compagnie di estrazione di metalli sottomarini, la Deep Green Metals si è quotata in borsa. Un dettaglio non di poco conto. Intanto gli attivisti di Greenpeace sono presenti sul posto con il Rainbow Worrior e sorvegliano le operazioni della nave noleggiata dalla stessa Compagnia. Contemporaneamente un’altra nave noleggiata da un’altra società leader, la Global Sea Mineral Resources (Gsr), sta trasportando un prototipo di robot minerario per i test d’impatto a più di 4.000 metri di profondità.

SEMBRA LA SCENA DI UN FILM western in cui tutti si osservano e aspettano la prossima mossa dell’avversario. Non siamo però nel deserto americano ma in mezzo all’Oceano, tra il Messico e le Hawaii, in un’area denominata frattura di Clarion – Clipperton che si estende per circa 6 milioni di km quadrati e dove il profumo di business si sta facendo intenso.

LI’ SOTTO, A UNA PROFONDITA’ di circa 5000 metri, dove tutto è buio e silenzioso, si nasconde un tesoro di proporzioni gigantesche. Parliamo dei metalli contenuti nei depositi sottomarini e sui quali negli ultimi anni si stanno rivolgendo gli appetiti della grande industria estrattiva e di alcuni Stati. Litio, cobalto, zinco, piombo, rame, oro, tellurio, indio, sotto forma di noduli polimetallici, ma anche croste sulfuree o caminetti di oasi idrotermali. Un tesoro sempre più richiesto nel futuro della transizione energetica perché per produrre le batterie di auto elettriche, di cellulari e computer, i pannelli solari, i touch screen e tutto l’armamentario di tecnologia nel quale siamo immersi c’è bisogno di questi elementi come il pane. O almeno così dicono i rappresentanti dell’industria mineraria che anche per questo utilizzano l’abusato green nei nomi delle loro compagnie o dei loro progetti.

SECONDO GERARD BARRON, Ceo di Deep Green Metals, «il passaggio all’energia pulita non sarà possibile senza estrarre miliardi di tonnellate di metalli dal pianeta». Considerato che l’estrazione dalle miniere sulla terraferma causa parecchi problemi, la soluzione più indolore per l’industria estrattifera è rendere il mare terreno di conquista. Così, mentre le compagnie si fregano le mani e scaldano i motori, il mondo scientifico e ambientalista è sul piede di guerra e chiede garanzie.

E’ INFATTI OPINIONE CONDIVISA che l’estrazione nel mare profondo causerebbe danni all’ambiente non recuperabili, se non in centinaia o migliaia di anni. «Estrarre noduli polimetallici a quelle profondità – dice Roberto Danovaro Direttore del Dipartimento di Scienze della Vita e dell’Ambiente presso l’Università Politecnica delle Marche e presidente della Stazione Zoologica Anton Dohrn – è come raccogliere funghi in un bosco con un buldozzer. Non è possibile che una compagnia privata guadagni impattando e il resto del mondo paghi i danni del dissesto». E ancora. «Un vero sconquasso per l’habitat sottomarino», dice Matthew Gianni della Deep Sea Conservation Coalition, una coalizione di oltre 80 organizzazioni internazionali. «Le acque di scarico contenenti i residui metallici possono arrivare anche centinaia di chilometri di distanza inquinando un’area molto vasta ed entrando nella catena alimentare marina. Per non parlare poi dell’inquinamento acustico e luminoso che impatta sugli habitat di fondo e su tutti quegli animali che usano il rumore per comunicare o trovare prede».

L’AREA AL CENTRO DELLE ATTENZIONI rientra in quel il 50% degli oceani che non ricade sotto la giurisdizione di nessuno stato. Una terra di nessuno e quindi di tutti. Proprio per vigilare sulle aree marine al di fuori dei confini giuridici nazionali è stata istituita nel 1994 l’Autorità per i fondali marini (Isa, International Seabed Autohority) sulla base della Convenzione sul diritto del mare (Unclos). Anche se ne fanno parte 167 paesi più l’Unione Europea la sua governance è molto discussa perché a decidere sul rilascio delle licenze è il Consiglio di cui fanno parte solo 36 Stati. Ciò che insospettisce maggiormente è poi il fatto che il lavoro alla redazione del codice minerario si svolga a porte chiuse e che le licenze concesse alle compagnie siano riservate. Insomma i dubbi sul funzionamento dell’Isa sono tanti anche perché lo stesso ente deve sia tutelare gli ambienti marini sia coordinare le attività di estrazione. Attività che non vanno d’accordo.

A FRONTE DI TUTTO QUESTO, anche se le attività commerciali di estrazione non sono ancora iniziate, sono già state rilasciate 30 licenze di esplorazione a Paesi come Cina, Corea, Regno Unito, Francia, Germania e Russia, che hanno rivendicato vaste aree del Pacifico, dell’Atlantico e dell’Oceano Indiano, per una copertura di circa 1,3 milione di km quadrati. «Quello che chiediamo – dice Matthew Gianni – è una moratoria in attesa che vengano soddisfatte almeno alcune condizioni: conclusione degli studi sugli impatti e la riforma dell’Isa che preveda una governance più democratica e rappresentativa di tutti gli Stati».

LA BUONA NOTIZIA E’ CHE ANCHE il Parlamento Europeo si è recentemente schierato dalla parte degli ambientalisti: ha infatti adottato il 9 giugno la risoluzione Eu Biodiversity Strategy for 2030, Bringing nature back into our lives, nella quale nei paragrafi 184 e 185 si sottolinea la necessità di proteggere i fondali dalle estrazioni e si invita la Commissione e gli Stati membri a promuovere una moratoria fino a quando gli effetti dell’estrazione mineraria non siano stati studiati e l’estrazione non sia gestita in modo da garantire che non vi sia perdita di biodiversità negli ecosistemi marini.

IL PARLAMENTO INOLTRE SI E’ ESPRESSO affinché la Commissione cessi di finanziare lo sviluppo della tecnologia di estrazione mineraria dei fondali marini. Una ghiotta occasione per gli ambientalisti per invitare gli Stati e gli altri soggetti coinvolti nei negoziati della Cop 15 che si terrà a ottobre in Cina a prendere in considerazione le raccomandazioni del Parlamento europeo. Intanto Google, Bmw, Ab Volvo Group e Samsung hanno sottoscritto un impegno a non procurarsi alcun minerale dai fondali marini e a escludere tali minerali dalle loro catene di approvvigionamento.

LA QUESTIONE DEI CONSUMI INFATTI è centrale e la coperta sembra comunque troppo corta per un’umanità sempre più numerosa e savida di strumenti tecnologici. «Una cosa è certa – dice Danovaro – la soluzione per alimentare la transizione energetica non può passare per lo sfruttamento del mare. L’Agenda 2030 ci dice che dobbiamo proteggere il 30% degli oceani e adesso siamo a una protezione inferiore al 10%. Se teniamo conto che tutti gli ambienti costieri, le piattaforme continentali, le 12 miglia rappresentano meno del 5%, significa che dobbiamo far rientrare nella protezione anche gli oceani profondi».