È certamente un periodo complesso per l’agricoltura del pianeta, un periodo in cui è profonda la dissociazione tra ciò che si misura sul campo e le azioni correttive che ne conseguono.

Dopo l’esperienza del 2014, l’Onu ha rilanciato, con il decennio 2019-2028, la decade dell’agricoltura familiare che vuole quasi suggellare quanto l’agricoltura di piccola scala sia strumento di sostenibilità anche nell’ottica di Agenda 2030. L’agricoltura familiare, infatti, è in grado di contribuire con efficacia a una gestione sostenibile delle risorse e rafforza il legame con i saperi contadini, nella produzione e nella trasformazione. Più dell’80% delle aziende agricole esistenti al mondo sono legate a modelli familiari, hanno una superficie media di circa due ettari ma occupano oggi non più del 15% della superficie agricola mondiale, che rimane ancorata a poche aziende sostenute da un modello produttivo industriale.

Un recente studio pubblicato su Nature Sustainability (Ricciardi et al. 2021) ha analizzato tutta la più recente bibliografia di settore concludendo che l’agricoltura di piccola scala garantisce più alte produzioni e una maggiore capacità di conservazione della biodiversità, sia di quella naturale che di quella di interesse agrario.
Nel frattempo, il commissario Ue per l’agricoltura Wojciechowski ha sottolineato che questo modello agricolo così funzionale e legato all’impegno familiare è a fortissimo rischio di scomparsa perché paga la miopia della Pac, che continua a sostenere l’approccio produttivistico industriale delle grandi imprese. Anche la Commissione per il controllo dei bilanci del Parlamento Europeo ha messo in evidenza che l’80% delle risorse europee della Pac finiscono al 20% delle aziende agricole dell’Unione, con un metro ancorato alle superfici e a parametri che non premiano l’indiscutibile contributo dell’agricoltura di piccola scala al sostegno di politiche ambientali.

In questo ragionamento, i collegamenti con la definizione della nuova Pac, con lo stentato avvio dei lavori sul Piano Strategico Nazionale e con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza sono inevitabili. Basti dire che tutti questi strumenti dovrebbero essere costruiti intorno a una visione politica ineluttabile, cioè quella transizione ecologica tanto auspicata dalle strategie Farm to Fork e Biodiversità 2030, che in questi giorni celebrano il primo anno dal loro lancio ufficiale. Eppure questa transizione ecologica stenta a trovare spazio concreto e nessun impegno politico riesce a dare la sensazione che si stia intraprendendo la strada verso un reale nuovo paradigma.

Invece si continua a concentrare l’attenzione sulla necessità di innovazione tecnologica, anche genetica, che nulla ha a che fare con la transizione ecologica e con la costruzione di un nuovo modello relazionale tra uomo e natura, a vantaggio della conservazione degli ecosistemi. Sembra non trovare spazio la voce a sostegno di politiche basate sull’agroecologia, unico vero modello sistemico in grado di costruire processi virtuosi e di sviluppare l’innovazione che ci viene offerta direttamente dalla natura.

Scaviamo sempre più il solco tra ciò in cui crediamo e ciò che facciamo concretamente, tra tutti, gli auspici verso una neutralità climatica e le azioni per raggiungerla.