Quasi cento i razzi lanciati dalla resistenza di Gaza nella giornata di ieri, decine quelli piovuti la notte precedente. È allarme in Israele: la violenza del primo giorno di offensiva contro la popolazione gazawi, il massacro della famiglia Karawe e gli omicidi mirati contro militanti di Hamas non potranno che scatenare la reazione dei gruppi armati. Da tempo il movimento islamista tentava di impedire il lancio di missili per rispettare il cessate il fuoco del novembre 2012: un ordine che ha provocato, secondo fonti palestinesi, una rottura interna tra ufficio politico e ala armata, le Brigate al Qassam. Stavolta, però, Hamas ha rivendicato molte delle azioni di ieri per mostrare alla popolazione che la resistenza è ancora colonna del gruppo.

E se il ministro della Difesa israeliano Ya’alon annuncia che l’operazione non terminerà fino a quando nessun missile partirà dalla Striscia, i vertici attendono la risposta palestinese: il comune di Tel Aviv ha ordinato l’apertura dei rifugi nel timore che – come accadde due anni fa – missili possano arrivare sulla capitale, oltre che su Ashkelon, Beer Sheva e Sderot. Durante l’operazione Colonna di Difesa una manciata di razzi colpirono anche alcune colonie a sud di Gerusalemme. Un alto ufficiale ha avvertito: «Non c’è dubbio che Hamas tenterà di sparare razzi verso Tel Aviv e forse più lontano, anche ad 80 km di distanza». La stessa minaccia ripetuta dal movimento islamista: «Non sognate la tranquillità senza prima porre fine all’attacco di Gerusalemme e di Gaza, senza rilasciare i prigionieri e rispettare gli accordi della tregua del 2012».

Ieri le sirene di allarme sono suonate a sud, Gerusalemme e Tel Aviv, dove il sistema Iron Dome avrebbe intercettato alcuni razzi. Nelle stesse ore nella capitale, il quotidiano Haaretz ospitava la sua Conferenza di Pace, a cui ha preso parte il presidente Peres. Il più onesto, sopra un palcoscenico che appariva meno credibile del solito, è stato l’editorialista Gideon Levy: «Non abbiamo mai accettato di guardare ai palestinesi come essere umani. Ammettiamolo. Nessuno ci prenderà mai seriamente se continuiamo a costruire colonie».

Già, le colonie. L’occupazione di terre palestinesi, anche nei mesi del cosiddetto processo di pace made in Usa, non si è mai fermata. Con questa è cresciuto a livelli esponenziali anche il razzismo e la violenza del movimento dei coloni e della campagna “Price Tag”. La settimana appena trascorsa, dopo il ritrovamento dei corpi dei tre coloni scomparsi nell’area di Hebron, ha portato con sé immagini indescrivibili: pogrom, azioni di gruppo, rapimenti, il brutale omicidio di un 16enne di Shuafat, Mohammed Abu Khdeir. E le aggressioni non si fermano. Ieri a Gerusalemme, teatro delle peggiori violenze, un colono ha aperto il fuoco contro un gruppo di palestinesi nel quartiere di Jabal al-Mukabbir, mentre un gruppo di estremisti formava una catena umana agli ingressi del quartiere minacciando con le pistole i residenti. Nel villaggio di Beit Sahour, alle porte di Betlemme, alcuni coloni hanno provato a rapire un bambino, una tentata aggressione che si verificava nelle stesse ore anche ad Hebron e a est di Yatta.

La risposta palestinese in Cisgiordania sono le proteste. Da una settimana ormai le notti sono accompagnate dal fischio dei gas lacrimogeni e dalle esplosioni delle bombe sonore, usate dall’esercito israeliano per disperdere i manifestanti nei campi profughi di Aida e Dheisha, a Betlemme, e in quello di Qalandiya a Ramallah. Ieri giovani palestinesi hanno lanciato molotov contro una base militare israeliana a Umm al-Safa, nord di Ramallah.

E mentre a Hebron un gruppo di donne scendeva in piazza per una manifestazione in sostegno di Hamas, interveniva anche l’Autorità Palestinese di Ramallah. Il portavoce del presidente Abbas, Nabil Abu Rudeineh, ha ribadito «il diritto del popolo di difendersi contro l’aggressione israeliana con tutti metodi legittimi»: «La decisione del governo israeliano di avviare un’aggressione contro Gaza e di continuare la sua politica di repressione, abuso e espansione coloniale in Cisgiordania va considerata alla pari di una dichiarazione di guerra». L’Autorità Palestinese ha già fatto appello all’Onu e alla comunità internazionale perché fermi una nuova carneficina a Gaza.

E mentre Israele richiamava in servizio ben 40mila riservisti, chiaro segno di un’offensiva che non durerà pochi giorni, l’esercito di Tel Aviv puntava il dito contro Hamas: il movimento islamista – hanno detto fonti militari – è il target perché dietro l’attuale escalation di violenze. In realtà, Hamas ha tentato di evitare nell’ultimo periodo una ripresa delle ostilità con Israele, anche a causa della debolezza interna del movimento, quasi costretto alla riconciliazione con Fatah. Hamas, che uscì vittorioso dall’operazione israeliana del 2012, con un cessate il fuoco che venne letto come una sconfitta per Tel Aviv sia dalla comunità internazionale che dallo stesso popolo palestinese, potrebbe uscire rafforzato politicamente dall’aggressione israeliana. Tel Aviv lo sa?