Lavoro

La bomba Rosarno pronta a riesplodere

La bomba Rosarno pronta a riesplodereNella tendopoli di Rosarno – Andrea Sabbadini

Reportage Senza luce, senz’acqua, senza riscaldamento: così vivono centinaia di africani nella tendopoli di San Ferdinando. Emergency apre un ambulatorio: «Qui è emergenza sanitaria»

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 27 ottobre 2013

E’ quasi l’ora che volge il disio e nell’antipurgatorio della baraccopoli di San Ferdinando bisogna affrettarsi. Quando andrà via il sole non si accenderà un lampione e sarà impossibile svolgere qualsiasi attività. Lavarsi, stendere i vestiti ad asciugare, mangiare o, perché no, leggere qualcosa prima di addormentarsi. Nella tendopoli costruita dalla Protezione civile nella zona industriale tra San Ferdinando e Rosarno all’indomani della rivolta del 2010, le condizioni di vita degli immigrati non sono cambiate rispetto a quei giorni, quando l’esplosione di violenza dei baraccati africani fece scoprire a tutta l’Europa il destino che attende chi ce l’ha fatta a superare le sue frontiere senza annegare nel Mediterraneo o essere respinto. Quello di San Ferdinando somiglia a uno dei tanti campi profughi che si possono incrociare ai margini di zone di guerra, uno spicchio di Africa italiana non dissimile da quella vera: settanta tende per 430 posti – una media di sei persone a tenda che nei periodi di punta, quando il campo arriva a contenere fino a 1.500 persone, triplicano come la cella di un carcere sovraffollato – wc mobili e qualche lampione per rendere la notte meno cupa se solo la corrente elettrica fosse allacciata.

I raccoglitori di arance di Rosarno non vogliono cibarsi degli agrumi che maneggiano per dieci ore al giorno, come il piccolo siciliano con il quale Elio Vittorini intesse una parte della sua Conversazione in Sicilia. All’ingresso del campo, davanti alla baracca che funge da ristorante, si gettano sulla brace più sostanziosi pezzi di capra. Quest’ultima penzola, squartata, ai due lati dell’ingresso e chiunque ne ha voglia può staccarne un pezzo e metterlo ad arrostire. Entro nel tugurio, il ventre della capra mi verrebbe da pensare, quando il povero animale è già ridotto di un quarto. Nugoli di mosche provano a prender parte al banchetto.

Ousmane Thiam viene dal Senegal. Ha lavorato per un decennio in una fabbrica del nord Italia, poi ha conosciuto Emergency e si è dedicato all’impegno sociale, per un paio d’anni nei campi del foggiano e ora qui in Calabria.

Ousmane è uno dei mediatori culturali del nuovissimo ambulatorio che l’associazione fondata da Gino Strada ha appena aperto a Polistena, a una ventina di chilometri da qui. È il mio nocchiero in quest’anticamera di purgatorio i cui ospiti sognavano il paradiso occidentale ma confinano pericolosamente con l’inferno, e non è meno impressionato di me dalla faccenda della capra. Non riesce a capacitarsi dell’assenza delle istituzioni. «Se esplode un’epidemia di tubercolosi in questo campo, l’intera città rischia il contagio. Non è intelligente lasciarli così», afferma sconsolato.

Dopo la rivolta dell’inverno del 2010, il governo è intervenuto a costruire la tendopoli per far fronte all’emergenza ma, come spesso accade in Italia, spenti i riflettori mediatici è tornato il disinteresse per la sorte dei migranti, le loro condizioni di vita e lo sfruttamento del lavoro, per quel che si agita nel ventre della capra. I lampioni non funzionano ormai da un anno, il campo è senz’acqua corrente, quella che i migranti bevono non è potabile e non c’è neppure un cassonetto per i rifiuti. Ad appena un centinaio di metri, i resti di un altro campo smantellato sono ancora lì, in brutta vista tra la scarsa vegetazione selvatica.

Chiedersi perché Emergency ha deciso di aprire proprio da queste parti un ambulatorio potrebbe suonare pleonastico. È evidente che Rosarno è un pezzo di terzo mondo interno dove si riflette, come nello specchio di Caravaggio, un modello di sviluppo globale che condanna alla deriva i Paesi da cui provengono questi migranti: Burkina Faso, Ghana, Niger, più in generale l’Africa subsahariana. Invece, non è scontato chiedere ad Andrea Freda perché Emergency ha deciso di volgere lo sguardo al ventre della capra italiana. Per quale motivo, dopo aver aperto ospedali laddove la sanità è negata – in Afghanistan, in Sudan – ha deciso di impegnare le proprie risorse in un Paese dove questa è assicurata dallo Stato e non ci sarebbe bisogno di un intervento privato. Inoltre, l’Italia non è in guerra e Reggio Calabria non è Kabul. «Il nostro mandato è di dare assistenza non solo alle vittime della guerra, ma anche della povertà», dice il mio interlocutore. E di povertà qui ce n’è molta, estrema tra i migranti e in rapida avanzata pure tra gli italiani. Freda è il coordinatore dell’ambulatorio di Polistena, è un infermiere e viene da Treviso. Ci tiene a premettere che «noi non abbiamo intenzione di entrare in competizione con il pubblico, piuttosto vogliamo collaborare con esso». Il problema, trascrivo dal sito dell’associazione, è che, «nonostante sia un diritto riconosciuto, anche in Italia il diritto alla cura è spesso un diritto disatteso: migranti, stranieri, poveri spesso non hanno accesso alle cure di cui hanno bisogno per scarsa conoscenza dei propri diritti, difficoltà linguistica, incapacità a muoversi all’interno di un sistema sanitario complesso». Vuol dire che gli africani della tendopoli di San Ferdinando, o peggio ancora quelli che sfuggono a ogni censimento e dormono sotto i ponti, i rumeni impiegati nell’edilizia, le prostitute e le badanti dell’est spesso non vanno dal medico semplicemente perché non sanno come fare.

Emergency ha portato da queste parti una cultura attiva dell’assistenza: non è il medico che aspetta che il paziente vada a trovarlo, ma è lui che va a cercarlo. «Abbiamo cominciato un paio d’anni fa, girando per le campagne con due polibus. Facevamo assistenza sanitaria di base e orientamento», spiega Freda. Da quest’esperienza è maturata la convinzione che la sanità non fosse poi così garantita anche nel terzo mondo italiano. E così, quando si è presentata l’occasione, sotto forma dell’assegnazione di uno stabile confiscato alla ‘ndrangheta, l’hanno colta subito.

L’ambulatorio di Emergency è proprio all’ingresso del paese. È meglio noto come «il palazzo dei Versace», la famiglia un tempo a capo del clan più temibile della zona. Dall’altro lato della strada sopravvive la vecchia insegna che aveva sostituito quella del Bar 2001 con un più kitsch Au petit bijoux. Risistemare la struttura, un palazzetto di quattro piani completamente rimesso a nuovo, imbiancato e con ampie vetrate al pian terreno, è stato come assestare uno schiaffo in pieno volto a quell’incompiuto calabro che costituisce un tratto caratteristico dell’edilizia locale: decine e decine di abitazioni in mattoni, non terminate, con il cemento armato che spunta dal tetto ad annunciare un ulteriore piano. La riappropriazione dell’edificio e l’intitolazione della piazza dirimpetto a Peppino Valarioti, segretario del Pci ucciso la sera stessa in cui aveva vinto le elezioni comunali, nel 1980, sono come un palo conficcato nel cuore malavitoso del rione Catena, considerato un santuario della ‘ndrangheta di Polistena, una delle più antiche e radicate nel tessuto sociale di Calabria – il primo grande processo, che vede alla sbarra oltre un centinaio di malavitosi del paese, risale al 1902. Il 17 settembre del ’91, davanti a questo palazzo che era il quartier generale del clan, da quattro auto scese un commando di sedici killer che aprirono il fuoco contro i fratelli Versace. Se ne salvò solo uno, solo perché si finse morto. Fu l’inizio della fine per la cosca, punita per aver tentato di espandersi troppo verso la costa.

Oggi al posto del bar sta per nascere una “casa dei giovani”: la sede di Libera con la vendita diretta dei prodotti coltivati nei terreni confiscati alle mafie, un auditorium, un ostello per ospitare turisti e volontari dell’associazione. Al secondo piano, sopra il salone in cui si celebravano i matrimoni dei rampolli della cosca, incontro Angelo Freda e lo staff di Emergency: un medico, una mediatrice culturale arrivata dalla Puglia e due africani. Uno di questi è Ousmane Thiam, che mi accompagnerà nell’antipurgatorio di San Ferdinando. L’ambiente è nuovo e ben curato, alle pareti immagini dagli ospedali di Emergency nel mondo e il testo integrale dell’articolo 11 della Costituzione: «L’Italia ripudia la guerra».

Non è l’unico ambulatorio che l’associazione ha aperto in Italia: dal 2007 ne è attivo uno a Palermo, un altro ha aperto a Marghera e, con gran sorpresa, medici e volontari si sono accorti che a usufruire delle prestazioni non erano solo stranieri, ma in un caso su cinque si trattava di italiani. I medici di Emergency sono presenti, in forme diverse, anche a Sassari e Siracusa, dove assistono i migranti che sbarcano in Sicilia. Nella sala d’attesa di Polistena, invece, ci sono solo immigrati. «È perché al momento forniamo solo assistenza di base, che gli italiani per fortuna hanno garantita. Ma siamo sicuri che quando introdurremo anche la specialistica ne arriveranno molti», dice Freda. Emergency rilascia ai migranti una propria tessera sanitaria, che dalle dimensioni e dal colore somiglia a un «libretto rosso» maoista, e li assiste nelle procedure per avere accesso alle cure specialistiche pubbliche. I mediatori vanno a prenderli dove vivono e li riaccompagnano a casa dopo le visite.

Il mezzo di locomozione dei migranti africani è la bicicletta. Man mano che si avvicina il tramonto, l’ora che volge il disio ai navicanti e ’ntenerisce il core di dantesca memoria, li vedi rientrare con i loro mezzi. Nel campo c’è perfino una piccola ciclofficina con gli attrezzi per l’autoriparazione. Alcuni tornano a piedi, altri ancora sono riportati a casa dai pick up dei caporali. Non è ancora la stagione degli agrumi e non c’è il pienone, ma c’è chi, senza lavoro, non sapendo dove andare ha preferito trascorrere l’estate nel campo. Può apparire paradossale, ma la disoccupazione è in aumento anche tra gli schiavi degli agrumeti. In questi giorni si raccolgono i mandarini verdi che saranno utilizzati per fare saponi e profumi, tra due settimane si comincia con i kiwi, tra un mese comincerà la raccolta degli agrumi ormai maturi e il campo si riempirà degli africani in arrivo dalla Sicilia e dal casertano.

La crisi italiana si scarica anche su di loro, che sono l’ultimo anello della filiera produttiva. Le arance di Rosarno finiscono soprattutto alle multinazionali che producono aranciate e succhi, e queste pagano ai proprietari dei terreni non più di otto centesimi a cassa, ben al di sotto del costo di produzione. Il risultato è l’aumento del sommerso: la maggior parte dei migranti lavora al nero per 25 euro per dieci ore di lavoro al giorno, 5 dei quali vanno al caporale. All’indomani della rivolta del 2010, l’associazione DaSud produsse un dettagliato dossier intitolato “Arance insanguinate”, denunciando come gli agrumi di cui la Calabria è il secondo produttore italiano dopo la Sicilia – da qui arriva il 31,7% del raccolto di un Paese secondo, in Europa, solo alla Spagna – siano spesso rossi non per il loro colore naturale bensì per il sangue dei lavoratori. I primi immigrati uccisi dalla ‘ndrangheta risalgono al ’92: la notte dell’11 febbraio tre algerini salirono a bordo di un’auto per andare a lavorare in campagna. Furono portati in una zona isolata e massacrati. Solo uno, sia pur ferito, riescì miracolosamente a fuggire.

Giuseppe Lavorato, storico sindaco comunista e poi parlamentare, animatore della cosiddetta “primavera rosarnese” degli anni ’90, ha denunciato «l’allontanamento violento di quei corretti commercianti che ad ogni inizio di annata agrumaria arrivavano nelle campagne e compravano gli agrumi a prezzo di mercato, conveniente e remunerativo per gli agricoltori. Con intimidazioni e minacce, la ‘ndrangheta li allontanò per rimanere unica acquirente ed imporre un prezzo sempre più basso al produttore. E nel corso degli anni si è impossessata di tutta la filiera agricola». Lavorato era con Peppino Valarioti la sera dell’agguato e ne raccolse l’ultimo sguardo e il testimone. È l’espressione di quella parte di società che non si assoggetta alla cultura e alle regole mafiose. Come lui don Pino de Masi, referente di Libera e a capo del movimento per la riassegnazione dei beni confiscati, a cominciare dal «palazzo dei Versace» di Polistena. O come i produttori associati a Sos Rosarno, che si sono impegnati ad assumere regolarmente i braccianti. Facendosi pagare gli agrumi cinque centesimi al chilo in più, dimostrano che è possibile produrre in maniera equa, biologica, senza sfruttare i migranti e senza cadere nelle braccia di mafiosi e caporali. Sono un piccolo esempio di come basterebbe poco per far funzionare il mercato in maniera differente. Nel frattempo, nell’antipurgatorio di San Ferdinando ci si prepara al nuovo raccolto. Da dicembre a marzo sarà il solito inferno.

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