A fine febbraio lo Svalbard Global Seed Vault, la più grande banca dei semi del mondo che si trova sull’isola norvegese di Spitsbergen – molto più vicina al Polo Nord che a Oslo, per capirci – ha superato quota un milione di varietà ospitate nel suo caveau. Esemplari di due terzi del circa milione e mezzo di semi alimentari presenti al mondo trovano rifugio nelle celle frigorifere di questo bunker, che è stato inaugurato nel 2008 per stoccare sementi provenienti da tutto il pianeta e «facilitare la conservazione di quelle importanti per l’alimentazione e l’agricoltura».

Quello norvegese è un progetto dalla portata notevole – negli anni scorsi ha per esempio consentito alla Siria di recuperare alcune coltivazioni andate perdute a causa della guerra civile – ma non va confuso con la tutela della biodiversità. Non è in celle frigorifere a -18 gradi che si salvano la terra e le sue ricchezze, ma con una coltivazione sostenibile e attenta. La biodiversità, come ricorda il presidente della Fondazione Slow Food Piero Sardo, «non può prescindere dal suolo». Significa che è la terra, attraverso i suoi sali e i batteri che ci vivono, a donare ai frutti una serie di caratteristiche uniche. Fuori dalla terra, inutile girarci attorno, non è possibile ricreare il contesto in cui i semi si sviluppano e fruttificano. Anche ripiantando i semi in un secondo momento, insomma, i risultati saranno inevitabilmente diversi.

Ma ci sono anche altre due motivi per i quali la nostra visione circa la salvaguardia dei semi è diversa dal progetto norvegese: Slow Food crede in una biodiversità la cui sopravvivenza sia garantita dal fatto di essere nelle mani di agricoltori sparsi in tutto il mondo, e non tenuta in quelle di un singolo, seppur nobilissimo, istituto. La terza ragione ha a che fare con la predisposizione dell’uomo a cercare alibi per le proprie disattenzioni: «Pensare che sarà la scienza a salvarci, qualunque cosa accada, è rischioso – prosegue Sardo – e questo vale per i semi, e allo stesso modo per il cambiamento climatico, i ghiacci che si sciolgono o gli animali a rischio estinzione». Bisogna pertanto agire, e in fretta: conservare i semi, come fa lo Svalbard, è solo parte della soluzione a un problema la cui risposta chiede uno sforzo ben più ampio.

E allora che cosa si può fare? Per esempio sostenere gli orti botanici: sono un’eccellenza italiana fin dal Rinascimento, primo fra tutti quello di Salerno, e rappresentano il luogo ideale per la conservazione della biodiversità alimentare. «Far vivere gli orti è costoso ed è più facile mettere i semi in congelatore, ma il modo migliore per tutelare la biodiversità è proprio la conservazione in situ, ovvero la coltivazione nel terreno. Facendolo ci accorgeremmo anche che il suolo è sull’orlo del collasso», danneggiato da abitudini che stanno stravolgendo le coltivazioni.

Le conseguenze di un approccio agricolo caratterizzato da sfruttamento intensivo della terra, monocolture e utilizzo di componenti chimici non si riflettono soltanto nella frutta e nella verdura che mangiamo. Sostenere la biodiversità, per Slow Food, significa sì tutelare il singolo seme che rischia di scomparire, ma soprattutto riguarda l’uomo e la sua vita: ogni varietà alimentare porta con sé la storia del luogo in cui nasce, le abitudini della gente che la tramanda e la capacità dell’uomo di lavorarla, di trasformarla in cibo. «Se perdiamo la biodiversità perdiamo un pezzo di storia dell’uomo, senza possibilità di recuperarla mai più». Nemmeno scongelando i semi.