L’infanzia è uno dei temi più trattati dalla narrativa e sempre lo sarà perché da lì non si scappa. Tutti siamo stati bambini e ogni infanzia è diversa dall’altra perché ciascuno attraversa le esperienze in modo singolare. Prendete due fratelli cresciuti nella stessa casa con gli stessi genitori e vi racconteranno episodi e percezioni per nulla sovrapponibili. Ma se non tutte le infanzie sono uguali, ve ne sono alcune che si portano dietro un carico emotivo e simbolico più ingombrante di altre. Franca Rovigatti, artista visiva, poetessa, autrice di romanzi di fantalinguistica (Afàsia) e raccolte illustrate di nonsense (modidire) è portatrice di un’infanzia così particolare che ha richiesto anni di silenzio, psicoanalisi e scrittura prima di poter essere raccontata. Da questo intimo ruminare è nato la bambina (il verri edizioni), un romanzo che, sebbene parli di fatti e persone reali, non è né un memoir né un’autobiografia perché il linguaggio cristallino e il punto di vista (la terza persona) rendono questa narrazione universale. La bambina, che è primogenita, ha una madre che dopo ogni gravidanza (ne avrà quattro) sta male e viene ricoverata per mesi in una clinica psichiatrica lontana da casa.

DOPO la nascita della sorella, la bambina viene mandata a vivere per periodi sempre più lunghi da una coppia di zii senza figli e comincia qui la sua infanzia sdoppiata fra due case (quella un po’ caotica dei genitori e quella grande e superorganizzata degli zii), fra due madri (quella naturale e difettata, la zia sicura e ascoltata da tutti), fra due mondi (quello semplice dove continuano a vivere i fratelli, l’altro benestante, religiosissimo e intellettuale degli zii), fra due famiglie (quella dove si sente un disastro e l’altra dove è considerata un piccolo miracolo). La bambina capisce presto che qualcosa non torna, soprattutto sente che, sebbene gli zii la crescano come una principessa, è stata rifiutata dalla famiglia d’origine.
Ma perché? Su questa domanda mai fatta e senza risposta la bambina costruisce giorno dopo giorno una sua percezione del mondo, degli affetti, della relazione con le due madri, di se stessa e con il proprio corpo che, per reazione, dagli otto anni in poi comincerà a ingrassare trasformandola in una Bambona piena di insicurezze e vergogna, ma anche di sommovimenti interiori. La bambina si adegua alla «amorosissima manutenzione» della zia, impara a servire il tè, a fare il letto in modo impeccabile, a stirare le camicie, apparecchiare la tavola, spazzolare giacche e cappotti, attaccare i bottoni, lustrare le scarpe, piegare la biancheria, un addomesticamento da cui intimamente si dissocia pensando «Io queste cose non le farò mai, da grande».

A POCO a poco la bambina si accorge di vivere in modo molto più agiato di molte sue compagne di scuola che le è proibito frequentare perché figlie di panettieri, portinaie, operai. Si accorge anche che gli zii sono classisti e lì matura un’avversione profonda verso l’ingiustizia del privilegio, sviluppandone insieme una profonda vergogna. Questa bambina, dunque, parla non solo della sua particolare infanzia, ma dice a tutti noi che i piccoli sono spugne e osservatori impietosi del mondo adulto. Vedono l’ingiustizia del privilegio, l’ipocrisia, le fragilità, i rapporti di forza, l’esercizio del potere, le differenze sociali, le imposizioni, le sminuizioni, sentono il dolore altrui forse prima ancora del proprio. Questa bambina ci dice anche in modo implacabile che il rapporto con colei che ci dà la vita, la madre, segna nel bene e nel male quello con la vita stessa.

mariangela.mianiti@gmail.com