Non è una novità di quest’anno che alla Biennale Musica i concerti con protagonisti giovani interpreti, in veste di solisti o in piccoli organici come duo e trio, propongano spesso programmi tra i più soddisfacenti e meglio assortiti della rassegna: probabilmente per la conoscenza più minuta della materia, del repertorio relativo al proprio strumento, per l’attenzione a individuare brani interessanti da cui essere valorizzati nell’esecuzione, e forse anche per una maggiore libertà, per l’indipendenza rispetto a negoziazioni sulle scelte.

Sabato a mezzogiorno, nella Sala delle colonne di Ca’ Giustinian, il recital di Francesco Prode, pianoforte, e Dario Savron, percussioni, è riuscito anche nell’impresa, in generale assai rischiosa, di accostare forti personalità quando non mostri sacri del Novecento con esponenti di generazioni più recenti, senza che, come invece spesso accade, ne venisse l’impressione di uno scabroso divario di livello e persino di senso. Tombeau in Memoriam Gérard Grisey di Phillipe Hurel, classe ’55, si fa per esempio rimarcare per una contemporaneità piuttosto – verrebbe da dire – classica, collaudata, che, col percussionista prevalentemente al vibrafono, mantiene una elegante limpidezza tanto in una prima parte più incalzante quanto in una seconda più rarefatta. Fine anche la soluzione di aprire e chiudere l’esibizione con due brani che vedevano impegnati entrambi gli strumentisti, intercalandoli con altri due con i musicisti in solitudine in uno ciascuno.

14rid Sogg.F.Prode c.Chicco Fratta img_2787(2)

A cominciare da Prode, che si è intelligentemente smarcato dalla storica e più secca interpretazione del dedicatario in …sofferte onde serene…: a quasi quarant’anni dalla prima esecuzione del ’77 la composizione per pianoforte e nastro magnetico concepita da Luigi Nono per Maurizio Pollini mantiene ancora una grande suggestione e poesia nell’interazione fra piano live e piano elaborato e fissato su nastro, che Prode ha saputo rendere viva. In Thummels Vergissmein-Lied (2010) di Fabio Nieder, brillante compositore di nazionalità italiana e tedesca, la marimba si adagia su suoni preregistrati, fruscii di radio a onde corte fuori sintonia, tramestii, sciacquii, soffio del vento; qua e là l’unico esecutore canticchia/pronuncia piano piano, in corrispondenza alla percussione dei tasti, sillabe/parole di una poesia infantile (scritta da Claudio Magris), con un bell’equilibrio fra suoni, strumento e voce, che si fondono in un delicato amalgama. E per finire un Georges Aperghis per marimba e pianoforte.

Sabato sera alle Tese dell’Arsenale il concerto dell’Ensemble Intecontemporain, diretto da Jean-Michael Lavoie, è stato dominato da un severo Ligeti (Concerto da camera del ’69-70). Ma Iridescent Stasis dell’israeliano Amir Shpilman ha mostrato una bella tensione, una suspence prolungato, con un gioco di timbri interessante fra glissandi acuti di archi e fondo di fiati su registri bassi.

La Biennale Musica ha variamente declinato il titolo scelto per l’edizione di quest’anno, Limes. Il tema del confine è stato indagato per esempio con diversi momenti di interesse per il dialogo di specifiche culture musicali tradizionali e la ricerca contemporanea. Venerdì sera, alle Tese, l’Orquesta Sinfonica de Euskadi (creata nell’82) ha proposto, in una sorta di singolare suite senza soluzione di continuità, composizioni fra gli altri di Mario Lavista, Ivan Fedele (direttore della Biennale Musica), Peter Eotvos, nonché suoni del Monte Uzturre e un duo di txalaparta (strumento tradizionale basco a percussione): l’effetto però è parso di estetizzazione della musica popolare da un lato, e di popolarizzazione della musica contemporanea dall’altro, e non solo nel senso dell’impiego di strumenti (txalaparta e cajon) e richiami popolari in alcune composizioni, ma di una selezione di brani di una certa agevole fruibilità e componente melodica.

In chiusura però la Biennale domenica sera ha fatto la scelta coraggiosa di andare a perlustrare anche dei confini non metaforici ma duramente reali, presentando Kater i Rades, musica del compositore albanese Admir Shkurtaj, libretto di Alessandro Leogrande, un’opera da camera, commissionata e coprodotta dalla stessa Biennale, sull’affondamento nel ’97 nel Canale d’Otranto (con circa 80 vittime, molte delle quali donne e bambini) della motovedetta albanese da cui il lavoro prende il titolo, che con a bordo oltre 100 albanesi in fuga dalla guerra civile, fu speronata in una scriteriata manovra di contrasto da una motovedetta italiana.

Con l’impiego di soprano, mezzosoprano e altre voci, di un coro polifonico tradizionale albanese, e di un piccolo organico strumentale, fra cui lo stesso compositore alla fisarmonica, Kater i Rades (che andrà in ogni caso giudicata in uno spazio acusticamente e visivamente più conveniente di quello delle Corderie dell’Arsenale, con le sue ingombranti colonne) ha una sua eclettica e non convenzionale efficacia musicale, che si sarebbe giovata di una minore densità di presenza delle voci, mentre nella ricerca di un impatto emotivo giocato sulla vicenda collettiva il lavoro è forse carente di una maggiore individualizzazione di figure di protagonisti.