In questi giorni al Teatro alla Scala di Milano (repliche fino al 6 giugno) sono in scena i due soli cimenti lirici di Maurice Ravel, due gioielli della musica novecentesca: l’opera in un atto L’Heure espagnole (1904) e la fantasia lirica in due parti L’Enfant et les sortilèges (1924). La produzione è quella allo stesso tempo descrittiva, ingegnosa e squisita del Glyndebourne Festival, con regia e costumi di Laurent Pelly, scene di Caroline Ginet, Florence Evrard e Barbara de Limburg, luci di Joël Adam. La direzione è quella precisa e briosa di Marc Minkowski. Nel cast di cantanti-attori, tutti prodighi di energia e freschezza, spiccano Stéphanie D’Oustrac, Jean-Luc Ballestra, Jean-Paul Fouchécourt, Marianne Crebassa, Armelle Khourdoian e Anna Devin.

 

 

L’Heure espagnole è una pièce brillante e licenziosa, articolata in un’introduzione orchestrale, ventuno scene e un quintetto conclusivo: nella bottega di un orologiaio della Toledo del XVIII secolo, la bella Concepcion, approfittando dell’assenza del marito, armeggia coi suoi pretendenti. Sebbene non manchino spunti melodici, l’opera ha scarse aperture cantabili o ariose ed è composta nello stile recitativo e quasi parlante dell’opera buffa italiana. Al riparo dal realismo psicologico del teatro verista fin de siècle, i personaggi agiscono come marionette, automi che incarnano cliché della tradizione comica (il marito vecchio e babbeo, la moglie giovane, bella e astuta, il poeta vanaglorioso, il villano prestante ecc.), ciascuno con una vocalità caratteristica e ben differenziata (si pensi ad esempio ai vocalizzi caricaturali del poeta Gonzalve, che richiamano l’antico canto di coloratura italiano, o ai motivi spagnoleggianti del mulattiere Ramiro).

 

 

La partitura mescola i suoni tradizionali di un’orchestra sinfonica di grandi dimensioni con rumori sommessi e suonerie di orologi, richiami di uccelli meccanici, bassi ronzanti, rintocchi di campane ecc., seguendo un principio «divisionista», che fraziona i solisti e l’organico in sezioni, rivelando il lavoro di cesello di Ravel.
Travolgente il quintetto finale su ritmo di habanera, in cui i personaggi si presentano tutti insieme al proscenio e si congedano dal pubblico intonando, con un’(auto)ironia simile a quella della fuga finale («Tutto nel mondo è burla») di Falstaff di Giuseppe Verdi, la morale della storia.

 

 

L’Enfant et les sortilèges è una sorta di racconto coreografico di impianto onirico nato da un’idea della scrittrice Colette, autrice del libretto: gli oggetti di una casa si animano contro un bambino capriccioso e cattivo (come accadrà ne La bella e la bestia di Disney). Le scelte formali di Ravel sono fantasiose e a tratti bizzarre: così la Poltrona in stile Luigi XV canta un minuetto, la Teiera e la Tazza un duetto in stile fox-trot, le Pastorelle un lamento rococò, i Gatti un duetto onomatopeico su un clair de lune che fa il verso a Debussy, le Libellule un valzer, mentre gli animali una polifonia seriosa.

 

 

Anche la scrittura vocale è eterogenea, spaziando tra il recitativo declamato e la melodia arcaizzante, tra il song all’americana e i vocalizzi melismatici del Fuoco, tra le inflessioni sentimentali della Principessa delle fiabe e le figure del più tipico stile buffo degli arredi. Gli strumenti tradizionali sono accompagnati da strumenti rari come il flauto di loto e la celesta, e da congegni strambi come la grattugia per il formaggio, i crotali, la frusta, la raganella a manovella, un ceppo di legno, la macchina del vento, assecondando un’inventiva coloristica senza precedenti.