Tikrit campo di battaglia: la città natale di Saddam Hussein è epicentro degli scontri tra Stato Islamico dell’Iraq e del Levante e esercito governativo. Vuoi per i simboli che rappresenta, vuoi per la presenza ancora radicata di milizie fedeli all’ex rais e per la sua posizione strategica. Nella provincia di Salah-a-Din, caduta nella prima settimana di offensiva nelle mani islamiste, Tikrit è metà strada tra Mosul e Baghdad, a pochi chilometri dalla raffineria di Baiji.

Ieri Baghdad ha avviato un’ampia operazione militare per riconquistare la città: fulcro della battaglia è la sede dell’università che l’Isil tenta di trasformare nel proprio quartier generale. Nelle stesse ore, l’aviazione governativa bombardava dall’alto: «Ora i combattenti dell’Isil hanno due opzioni – ha promesso il generale iracheno, Sabah, Fatlawi – Fuggire o essere uccisi». In contemporanea, l’esercito regolare ha spostato veicoli militari verso sud, nella città sciita di Samarra, attaccata ad inizio giugno dai jihadisti senza successo.

E mentre nella roccaforte baathista si combattevano i nuovi alleati dei sunniti iracheni e lo Stato, Washington confermava la notizia circolata ieri: droni armati sorvolano la capitale per proteggere i 300 consiglieri militari inviati a coordinare le operazioni anti-terrorismo. Nessuna novità sul fronte militare: per ora la Casa Bianca non intende usare i droni per bombardare i jihadisti, lasciando alle truppe irachene – che si stanno riorganizzando dopo le defezioni dei primi giorni – il compito di affrontare i miliziani.

Una reazione alla minaccia qaedista che a Baghdad non sembra sufficiente: da due settimane il premier Maliki chiede agli Stati uniti un’azione forte, ricevendo come risposta la carta diplomatica (e l’inaccettabile, per il primo ministro, richiesta di farsi da parte). E Baghdad si guarda intorno: ha accolto con favore le bombe siriane contro le postazioni jihadiste nella provincia sunnita di Anbar, ha aperto le porte ai pasdaran e ai consiglieri militari iraniani e i cieli ai droni di Teheran, ha firmato un accordo per l’acquisto di jet russi e ora si rivolge al Palazzo di Vetro. Ieri il ministro degli Esteri, Hoshyar Zebari, ha inviato un messaggio al segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, domandando aiuto per la protezione del territorio e del popolo iracheni: «Addestramento militare, strumenti tecnologici e armi», di questo ha bisogno l’Iraq, secondo il suo premier.

Ormai gli attori impegnati nel devastato palcoscenico iracheno sono tanti, e sono potenti. Ieri l’incontro tra re Abdallah al-Saud e il segretario di Stato Usa Kerry si è concluso con l’assicurazione da parte di Riyadh di impiegare la sua influenza sui leader sunniti iracheni perché partecipino alla formazione di un governo di unità nazionale.

Un piccolo cambio di rotta dell’Arabia saudita che nei giorni scorsi aveva posto come condizione l’allontanamento di Maliki. Ma ora Riyadh sa di non poter rischiare e mantenere un basso profilo: l’avanzata dell’Isil – finanziata, prima in Siria e poi in Iraq, proprio dai paesi del Golfo – può rappresentare un terremoto per gli equilibri di potere regionali, con l’asse sciita Siria-Iran-Hezbollah intenzionata ad approfittare della situazione per rafforzare i propri interessi strategici e con gli Usa che – per la prima volta dopo decenni – condividono con Teheran e Damasco la preoccupazione per l’avanzata dei radicali sunniti.

A mettere d’accordo Kerry e re Abdallah è stato Ahmad Assi al-Jarba, già presidente della Coalizione Nazionale Siriana, che potrebbe ricevere a breve altri 500 milioni di dollari da Washington. Per entrambi l’uomo chiave, per cui l’amministrazione Obama avrebbe piani di più ampio respiro: utilizzare la sua figura e le milizie moderate siriane per combattere l’Isil direttamente in Iraq. «Il presidente Jarba rappresenta una tribù che arriva fino in Iraq – ha commentato Kerry – Conosce gente lì».

E mentre prosegue la faida tra sunniti e sciiti, a godere dei frutti è il Kurdistan iracheno. Peshmerga curdi sono dispiegati in tutto il territorio della regione autonoma per difenderla da eventuali attacchi dell’Isil, seppure fonti locali abbiano parlato di un presunto accordo tra curdi e islamisti per spartirsi il bottino iracheno. Le unità militari curde non si accontentano di proteggere il Kurdistan, ma si sono ampiamente allargate nelle province abbandonate dall’esercito governativo e – ha detto ieri il presidente della regione autonoma Barzani – non intendono ritirarsi.

Di certo non lasceranno la contesa Kirkuk e le sue ricchezze petrolifere: «Abbiamo aspettato dieci anni che Baghdad risolvesse la questione – ha detto Barzani – Ora è risolta perché l’esercito iracheno se n’è andato e i peshmerga sono entrati. Tutto a posto. Non se ne parlerà più».