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La battaglia occulta del copyright

La battaglia occulta del copyright – foto Reuters

Codici aperti Cosa succede nel mondo del diritto d’autore dove l’avvento del digitale e di players come Deezer e Spotify hanno rivoluzionato lo scenario

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 17 giugno 2016

La direttiva Barnier è il nuovo regolamento con cui la Comunità Europea cerca di imporci enti di gestione indipendente in alternativa alle collecting societies, come la francese Sacem e l’italiana Siae, ma il cui intento è l’accorpamento dei repertori grazie alle innovazioni digitali. Una mossa di scacchi che all’apparenza vorrebbe migliorare la trasparenza e la governance dei mastodontici apparati nazionali, ma che invece apre la strada alla solita privatizzazione di un settore dove già, players come Deezer e Spotify, stanno in autonomia svuotando il copyright, essendo di fatto i veri padroni della musica. C’è chi non ragiona in termini di monopolio ma di diritto d’autore e vede il problema di un sistema malato nel copyright.

E la soluzione la trova nelle CreativeCommons, cioè le licenze riconosciute internazionalmente in cui l’autore decide quali diritti riservarsi sulle proprie opere. CTRL (sigla che si rifà alla funzione della tastiera del pc, control appunto) propone un modello che dia il controllo totale della filiera musicale ad autori e operatori. Nato un paio d’anni fa dall’incontro di giuristi, filosofi, musicisti e persone impegnate nel lavoro culturale, l’obiettivo è quello di fornire agli artisti gli strumenti per promuoversi, distribuire musica e organizzare concerti, ma anche di far collaborare autori e operatori all’interno del medesimo organo, in cui saranno le decisioni collettive a regolare una governance orizzontale.

A parlare è Corrado, musicista e attivista: «È un’idea sviluppata in Italia perché ci sono specifiche contingenze di mercato che ci obbligano a creare un’opzione alternativa. Il diritto d’autore deve essere tutelato senza essere oggetto di commercio: la cultura si crea sul passato, il presupposto è che la musica debba il più possibile rimanere un bene comune. Dal 1932 i diritti di ogni brano depositato in Copyright sono gestiti come una quota di mercato da vari intermediari». Il Copyright su una canzone scade dopo 70 anni dalla morte dell’artista, anche se probabilmente con il TTIP verrà allungato a 99 anni, come negli Usa: «Non ci sarà mai più un brano che sarà di pubblico dominio e la cultura non avrà più una fonte libera da dove attingere».

In Inghilterra, lo Statuto di Anna del 1710 sanciva l’istituzione del diritto d’autore il quale, però, durava 14 anni dalla creazione dell’opera: «Oggi viviamo nel mercato del diritto d’autore, il 90% degli artisti che vengono prodotti dalle etichette cedono tutti i loro diritti e questi finiscono negli enormi repertori delle varie case discografiche: Warner, Universal e Sony insieme posseggono i diritti di più della metà della musica mondiale». Inutile pensare che, con tali trust, cambino le leggi internazionali però è errato credere che soggetti come Soundreef siano i salvatore della patria, con Fedez e Gigi D’Alessio che sembrano più una mossa mediatica. Il dubbio è che alla direttiva Barnier non interessi il virtuosismo delle società ma solo di aprire il mercato del diritto d’autore a società di gestione indipendenti spostando la partita sul più spregiudicato capitalismo: «La situazione di Siae è così compromessa che gli autori stanno decidendo volontariamente di affidarsi a una società indipendente che garantisce a tutti gli effetti maggiori guadagni e un servizio più veloce e trasparente. Ma non bisogna trascurare che la perdita di potere decisionale sull’organo di gestione è un grande rischio: non essendo determinata da un’assemblea dei soci, infatti, potrebbe essere acquistata da una Major (e con lei il suo repertorio) senza che gli autori possano fare nulla se non accettare la decisione, o uscirne». La direttiva Barnier in questo senso è molto chiara: detta regole per equalizzare il funzionamento delle società di gestione collettiva aprendo contemporaneamente il mercato alle società indipendenti, cioè aziende che non vedono gli Autori fra le componenti decisionali.

La gestione di un diritto inalienabile dell’essere umano, già ridotto a merce di scambio, finirà in mano privata: «Il diritto d’autore è l’ultima briciola della filiera musicale a non essere proprietà delle aziende finché gestito in termini di organi associativi. L’industria musicale controlla già tutti gli altri step come produzione, promozione e distribuzione… Con la Barnier avranno tutto il resto». Il problema è che, senza un’alternativa collettiva, con monopolio o senza si finisce sempre in mani sbagliate: «In Italia vige un monopolio di legge ma non di fatto: l’organo monopolista funziona malissimo e società con sede all’estero lavorano in Italia offrendo servizi migliori. In altri stati non esiste un monopolio di legge, ma le collecting statali funzionano bene configurando quindi un monopolio di fatto. Mantenendo il monopolio in Italia si condannano i repertori a essere assorbiti da società estere, togliendolo senza rivedere completamente il funzionamento di Siae si corre lo stesso rischio, ma almeno la concorrenza sarà fatta in Italia e non da fuori. Il punto focale non è quindi il monopolio, anche se tutti parlano di quello, ma la gestione del diritto d’autore come merce di scambio in un mercato aperto alle multinazionali».

Dopo l’incontro ad aprile all’Angelo Mai di Roma, il 28 e 29 maggio quelli di CTRL si sono ritrovati a Napoli presso l’Asilo: «Stiamo dando forma a uno strumento per operare nel mercato nella maniera più disintermediata possibile. Partendo dal principio che il diritto d’autore torna un diritto e non una merce commerciabile, cioè in nessun momento qualcuno che non sia l’autore potrà possedere i diritti di un autore, fonderemo un soggetto in cui autori e operatori abbiano ruoli decisionali ben precisi all’interno di un sistema di governance orizzontale e a prova di speculazione».

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