Un fiume di persone, a piedi, in auto, con buste di plastica per pochi oggetti personali, ieri riempivano il fazzoletto di terra di fronte al valico di frontiera di Bab al-Salama, tra Siria e Turchia. Diecimila, ventimila, settantamila: i numeri che rimbalzavano sulle agenzie stampa si confondono. Sono siriani in fuga da quella che si prospetta la battaglia finale per Aleppo, immagini che ricordano la fuga di massa da Mosul, nel giugno del 2014, o quella da Kobane pochi mesi dopo.

«Si stima che 20mila persone si siano ritrovate al valico di Bab al-Salama e altre 10mila nella città di Aziz», spiegava ieri l’agenzia Onu Ocha. Ankara non pare intenzionata ad aprire la frontiera, il valico resta serrato. Giovedì il governo turco parlava di 70-100mila persone in fuga da Aleppo, dopo il presunto lancio di volantini da parte dell’aviazione governativa: «La guerra è vicina alla fine. Sarà tragica per tutti noi se terminerà con la morte dei vostri cari e la distruzione delle vostre case. L’esercito siriano propone o un bagno di sangue o l’opportunità di evitarlo espellendo i miliziani stranieri dalla vostra area. Sarà garantito un passaggio sicuro».

La controffensiva per una delle principali città siriane, centro economico e culturale devastato da anni di guerra , era ripartita pochi giorni fa mentre a Ginevra si tentava un dialogo senza basi. Mosca e Damasco lo ripetono: non cesseremo le operazioni contro i terroristi. Una presa di posizione che, secondo le opposizioni dell’Hnc e il fronte globale che le sostiene, ha ucciso il dialogo. L’eventuale vittoria ad Aleppo spianerebbe la strada al governo, sia sul piano militare che diplomatico se mai Ginevra dovesse davvero partire.

Aleppo è strategica, possibile chiave di volta del conflitto. Dentro la città, divisa in due dal 2012, ci sono tutti: c’è il governo nella zona occidentale, c’è l’Esercito Libero Siriano, ci sono i qaedisti di al-Nusra e gli islamisti di Ahrar al-Sham, c’è anche lo Stato Islamico che preme da est.

Negli ultimi giorni le truppe governative sono avanzate in modo significativo: dopo l’occupazione della strada che collega Aleppo al confine turco, unica via di rifornimento per le opposizioni, ieri l’esercito annunciava la ripresa di un altro villaggio, Rityan, a nord e l’accerchiamento di tutta la zona settentrionale. Il punto di partenza della controffensiva finale, sostenuta da unità iraniane e di Hezbollah e da centinaia di raid russi e che si accompagna alle operazioni a sud della Siria dove ieri è stata ripresa la città di Atman, a Daraa.

E mentre il Consiglio di Sicurezza, ieri, a porte chiuse incontrava l’inviato Onu de Mistura, altre forze si facevano avanti per prendere parte al conflitto in un paese martoriato. Giovedì sera l’Arabia saudita si è detta pronta a partecipare ad un’eventuale operazione via terra: «Oggi la monarchia saudita annuncia di essere pronta ad entrare con i propri uomini nella coalizione anti-Isis guidata dagli Usa, perché ora abbiamo l’esperienza dello Yemen – ha detto il generale Asseri, capo della coalizione sunnita anti-Houthi – Sappiamo che i raid non possono essere sufficienti e che è necessaria un’operazione via terra».

Probabilmente sarebbe coordinata con l’alleata Turchia che preme per annientare i kurdi di Rojava e che giovedì veniva accusata da Mosca di essere in procinto di dispiegare l’esercito nel nord della Siria.

Parole che allarmano perché prospettano una guerra globale su territorio siriano, in cui lo scontro tra potenze diverrebbe reale. Per ora ci si limita alle dichiarazioni verbali, con gli Usa che plaudono alle intenzioni belliche saudite e la Nato che punta il dito contro Mosca: i raid contro le opposizioni «minano gli sforzi di trovare una soluzione politica», ha detto ieri il segretario generale del Patto Atlantico, Jens Stoltenberg.