È stato l’ultimo atto del secondo mandato di Barack Obama, prima che alla Casa bianca subentrasse ufficialmente Donald Trump – il canto del cigno di un modo di intendere la presidenza degli Stati uniti: la commutazione della sentenza di Chelsea Manning, condannata dalla corte marziale a 35 anni di prigione per aver reso pubblici decine di migliaia di documenti segreti del governo Usa. Nel gennaio 2017, dopo 7 anni trascorsi in carcere, Obama stabilisce però che la pena di Manning – una «sentenza spropositata» – era già stata scontata. È nel giorno in cui l’ex soldato dell’esercito americano (nata Bradley Manning) viene rilasciata che comincia XY Chelsea, il documentario di Tim Travers Hawkins presentato in questi giorni al Festival Mix di Milano (20-23 giugno).

GIUNTO alla sua 33sima edizione, il festival di cinema gaylesbico e queer culture si svolge quest’anno a ridosso del cinquantennale -il prossimo 28 giugno – della rivolta di Stonewall, che da New York ha innescato il movimento di liberazione Lgbtq in tutto il mondo. E dall’Italia del Mix si torna agli Usa con la storia di Manning, analizzata dal regista da un punto di vista più intimo rispetto al motivo per cui la celebre «leaker» è conosciuta ovunque nel mondo, e cioè la scelta di rompere la segretezza sugli orrori di cui era stata testimone in Iraq, dove si trovava in missione come intelligence analyst. Il documentario – la produttrice esecutiva è Laura Poitras, autrice di Citizenfour sull’altro celebre «leaker» statunitense: Edward Snowden – indaga le motivazioni dietro la sua scelta così radicale e pericolosa in termini di conseguenze personali, ma si interroga soprattutto sul processo di costruzione di un’identità frammentata e dolorosa: quella appunto della sua protagonista.

Manning non è infatti «solo» transgender – il coming out arriva durante il processo per tradimento alla corte marziale – ma una persona che deve ricostruire la propria vita, e la propria percezione di sé, dopo anni trascorsi nell’esercito prima e in prigione poi, compreso un periodo in isolamento. E c’è poi l’identità che le viene costruita addosso dal pubblico – traditrice, santa, eroe, mostro, simbolo – e la sovraesposizione mediatica dopo che torna in libertà. Tutti la vogliono intervistare: è sulla prima pagina del «New York Times», nei principali salotti televisivi. Il documentario di Travers la accompagna fino alla sua «caduta in disgrazia», quando vengono rese pubbliche delle foto di Manning – che nel frattempo si è candidata alle primarie democratiche del Maryland – in compagnia di personaggi dell’Alt Right a una festa. Era un modo di raccogliere informazioni sul nemico si giustifica lei, ma ormai il danno è fatto e gli attacchi piovono da tutte le parti. La sua candidatura viene ritirata, le conseguenze psicologiche sono terribili.

IN FONDO, Chelsea Manning non è stata sinora che la pagina bianca su cui le persone hanno scritto le proprie aspettative, aspirazioni, o al contrario odio e rancore. La sua identità faticosamente ricercata è invece un processo in divenire, necessariamente lontano dai riflettori e dalla macchina da presa che ha cercato invano di penetrarne il mistero – e che la «abbandona» poco prima dell’inizio di una nuova tormentata vicenda processuale dovuta al rifiuto di Manning di testimoniare davanti al gran giurì contro Julian Assange.
La percezione, i mille riflessi di un’idea su uno specchio deformante sono al cuore in un certo senso anche di Gay Chorus Deep South, il documentario di David Charles Rodrigues sul tour nel profondo sud degli Stati uniti del Coro di uomini gay di San Francisco.

LA TOURNÉE parte all’indomani dell’elezione di Trump che rinvigorisce le tendenze più reazionarie negli Stati del sud, alcuni dei quali approvano delle legislazioni estremamente omofobe. Ben rappresentate dal Bill HB 1523 del Mississippi, che stabilisce la validità temporale di credenze religiose: la possibilità del sesso e del matrimonio solo fra uomo e donna, l’impossibilità di cambiare il proprio genere. In base a questa legge, le persone della comunità Lgbtq possono essere licenziate o cacciate a piacimento anche dalla propria casa come spiega un’attivista dell’American Civil Liberties Union.

In segno di protesta e di solidarietà verso la comunità del Sud, e per raccogliere soldi da donare alla causa, il Gay Chorus parte alla volta di Mississippi, Tennessee, Alabama, Nord e Sud Carolina. Ma una volta in quei luoghi, i membri del coro devono confrontarsi con i loro stessi pregiudizi, con il fondo «paternalista» della loro missione, come rimprovera uno storico queer del Tennessee: quella di «salvare» i «bifolchi» del Sud senza avere percezione delle sfumature di una realtà complessa, in cui la comunità Lgbt non è in attesa di eroi ma unita e combattiva.
È nell’incontro e nella scoperta reciproca che si sposta il cuore del film, e il senso del viaggio intrapreso dai coristi. Un incontro accompagnato, come dice uno spettatore dei concerti del Gay Chorus, dal «linguaggio universale della musica in un’epoca di profonde divisioni».