Maria traffica coi corpi altrui, il business del contemporaneo, ragazze dell’est e africane che si prostituiscono lungo la Domiziana, dormono e mangiano in mezzo la monnezza, che quando rimangono incinte il bimbo si vende a «brave persone» che aspettano da secoli in lista di attesa di coronare il sogno familiare. E via così a sfruttamento intensivo, uno, due, tre, c’è chi fa solo quello, un’amica di Maria ne ha venduti cinque prima di sposarsi malata di tumore che chissà se sopravviverà. I figli sono delle madri che li vogliono non solo di chi li fa ripete Maria (Pina Turco) alle ragazze mostrando al boss, Zia Marì, che la lezione l’ha imparata bene. Del resto in quel pezzo di mondo vestito di lucine e di degrado, dove i maschi sono stupratori o puttanieri e le donne decidono e comandano solo in apparenza, la vita sembra contare meno di niente e la speranza è diventata un vizio.

LO DICE sin dal titolo del suo nuovo film Edoardo De Angelis, Il vizio della speranza appunto – alla Festa di Roma, dopo l’esordio a Toronto, in sala il prossimo novembre – in cui il regista di Indivisibili mette al centro lo stesso paesaggio del film precedente, e ancora di più le figure femminili – qui madri «vere» o «presunte» – che disegnano anche una galleria di attrici napoletane – da Cristina Donadio oggi popolare per Gomorra (la serie) ma che ha alle spalle una lunga presenza nel teatro e nel cinema napoletani più eccentrici. O Marina Confalone (Tre donne morali di Marcello Garofalo) meravigliosa interprete tra palco e schermo nel ruolo della boss Zi’ Mari, – che di Maria poteva essere madre e da lei si fa iniettare la sua dose di eroina controllata.

QUANDO la protagonista, solitaria col suo Cane pitbull (una femmina) e il cappuccio tirato sulla testa scopre di essere incinta pure lei – eppure dopo uno stupro feroce le avevano detto che i figli non li poteva avere – la gravidanza e il bambino per cui lotta diventano qualcos’altro. Non tanto fede che sembra impossibile tra i crocifissi spaccati e la chiesa corrotta, forse rivolta, o una via di resistenza, l’inizio di un mondo nuovo come vuole il suo nome, Maria, e quel figlio arrivato chissà da dove e senza un padre che lei sa sarà maschio e vuole chiamare Uomo.

De Angelis non ha però l’occhio e l’ispirazione per filmare l’invisibile – forse nemmeno è il suo obiettivo – quella «spiritualità» che è una delle immagini più difficili da restituire, a cui certo non basta l’aura vagamente iperrealista del degrado, o un cavallo che fugge al galoppo lungo il mare – e meno che albe e tramonti da spot (pure se contrastati dalla bella musica di Enzo Avitabile).

Cosa ci dice il suo mondo chiuso lungo l’acqua, di neon e disperazione, medici che visitano in mezzo alle armi e madri che buttano in strada le figlie, dove decide la miseria e il sentimento è morto? Nulla di più di una cartolina, il Colosseo o le valigie di cartone, se è tutto «vero» poco importa – e non è solo il logorio del cinema italiano tra Gomorra/Suburra – perché ormai è diventato un decor obbligato e rassicurante. Miseria funzionale alla storia, al racconto, alla riconoscibilità, alle attese. Tutto il resto non è nemmeno fuoricampo, in campo non ci entra affatto. Il conflitto, lo stridore, l’intimità: quel personaggio di ragazza che cambia all’improvviso, una dura con qualche tenerezza è tutta lì, non ha bisogno di nulla, basta il fatto che a un certo punto sia Maria con la sua natività. Ma basta davvero?

«HO IMMAGINATO un film in cui vince chi resiste all’inverno, chi ha la pazienza di aspettare che qualcosa cambi. Quando poi quel cambiamento arriva, ci si rende conto che l’imperativo etico è uno ed uno soltanto: agire» ha detto il regista nell’incontro con la stampa. Ma l’azione sfugge, la scrittura (cinematografica) anche. I detour di quello che dovrebbe essere un viaggio esistenziale si spengono nella programmaticità, la stessa di quel paesaggio senza apocalisse se non quella imposta dalla sceneggiatura, privo di contrasti, di confronto, di interiorità.
Che si sappia tutto non è importante, che lo si sappia rendere cinema – e racconto emozionale – invece sì.