L’agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha pubblicato i nuovi criteri che regoleranno l’accesso dei malati di epatite C alle nuove terapie antivirali, efficaci contro la malattia nel 90% dei casi. L’obiettivo dichiarato è quello dell’eradicazione della malattia, che attualmente colpisce circa un milione e mezzo di italiani e causa diecimila decessi l’anno. In realtà, le risorse messe a disposizione dal governo sono molto inferiori. Il «piano di eradicazione», come lo ha definito il Direttore Generale Mario Melazzini, prevede di curare 240 mila pazienti nei prossimi tre anni, sfruttando i 500 milioni di euro annui messi a disposizione nella legge di bilancio. A spanne, fanno circa 6 mila euro a paziente, destinati in gran parte all’acquisto dei farmaci che dal 2014 danno una speranza di guarigione a circa 130 milioni di malati nel mondo.

LA DECISIONE sui nuovi criteri cade in un momento molto delicato per il destino dei malati. In queste settimane si sta svolgendo la fase decisiva della trattativa tra Aifa e società farmaceutiche fonitrici dei farmaci. Nei tre anni passati, il mercato era dominato da una sola società: la Gilead Sciences detentrice del brevetto sul principio attivo sofosbuvir in grado di sconfiggere il virus. Il monopolio mondiale ha garantito alla Gilead profitti stratosferici per due o tre anni. Con circa 14 miliardi di dollari di ricavi, il sofosbuvir (commercializzato con il nome di Sovaldi e Harvoni) è diventato il secondo farmaco per volume di vendite nel mondo (dati 2015).

Il discutibile record non è dovuto solo al numero di pazienti, ma soprattutto al prezzo elevato imposto dalla Gilead ai sistemi sanitari pubblici e alle società assicurative, laddove (come negli Usa) manca un vero sistema sanitario nazionale pubblico. Proprio negli Usa, il sofosbuvir ha raggiunto il prezzo record di 84 mila dollari per ciascun trattamento, che dura circa tre mesi. Anche in Europa, nonostante i sistemi sanitari pubblici abbiano calmierato il prezzo, curare l’epatite è un affarone.

In Italia, il costo a carico dello stato è stato fissato in un accordo segreto tra Aifa e Gilead, di cui si conoscono solo cifre sommarie.

L’accordo prevedeva che il prezzo del sofosbuvir calasse con l’aumentare dei pazienti ammessi al trattamento. Perciò, per i primi malati trattati nel 2014 lo stato ha speso circa 40 mila euro ciascuno. A fine 2016 il numero di somministrazioni era arrivato a quasi settantamila pazienti, e il prezzo di ogni trattamento era sceso a circa quattromila euro. In media, dunque, nel triennio 2014-2016 l’Italia ha pagato 14 mila euro per ogni terapia, il prezzo più basso spuntato in Europa. Ma si tratta comunque di una cifra notevole, che ha costretto l’Aifa a restringere la somministrazione ai malati più gravi, individuati in sette categorie. A fine 2016, l’accordo con la Gilead è scaduto e da allora i suoi termini essere rinegoziati, includendo anche il nuovo farmaco Epclusa.

Con le nuove linee-guida, le categorie sono salite a undici e includono ora anche pazienti in cui i sintomi del virus non sono ancora pienamente conclamati. Nelle intenzioni di Melazzini, questa scelta dovrebbe triplicare il numero di trattamenti, a patto che le risorse economiche stanziate siano sufficienti. Su questo, però, gravano molte incertezze dovute alla confidenzialità degli accordi commerciali che l’Aifa stringe con le case farmaceutiche.

QUEL CHE SI SA è che tra Gilead e Aifa non è stata raggiunta alcuna intesa. Lo ha confermato una nota della società datata 10 marzo, in cui si dice «rammaricata che nonostante l’impegno profuso proprio nel corso delle trattative per il rinnovo del contratto di Sovaldi e Harvoni, non sia stato sinora possibile giungere ad un accordo con Aifa sul rimborso dei due farmaci». In effetti, Sovaldi e Harvoni sono attualmente classificati tra i farmaci «non rimborsabili» dal sistema sanitario nazionale. Dunque, come può l’Aifa promettere cure più universali, senza un accordo con la Gilead per l’approvvigionamento dei farmaci?

La scommessa dell’Aifa finora si è basata su due possibili strategie. Da un lato, Melazzini si è detto pronto a violare il brevetto della Gilead. «Se non accetteranno di ridurre i prezzi – ha dichiarato in febbraio a La Stampa – potremmo arrivare a chiedere al governo come extrema ratio l’applicazione degli accordi internazionali Trips del 2006, che in caso di emergenze di salute pubblica consentono agli Stati il ricorso alla licenza obbligatoria». In effetti, il valore del monopolio brevettuale non è assoluto.

Gli accordi Trips dell’Organizzazione Mondiale del Commercio siglati nel 1994 prevedono che, in caso di particolari emergenze sanitarie, gli stati possano concedere «licenze obbligatorie» e produrre un farmaco anche senza l’accordo economico con chi detiene in brevetto. La clausola, inizialmente non prevista dai trattati, è il risultato della battaglia vinta dalle associazioni di malati di Hiv del Sudafrica alla fine degli anni Novanta contro i prezzi eccessivi imposti ai farmaci salvavita brevettati dalle società farmaceutiche. In rari casi, però, di questa clausola hanno approfittato anche i paesi industrializzati. Minacciarono di farlo anche gli Usa, ad esempio, per costringere la Bayer ha abbassare il prezzo della ciproflaxacina necessaria a rispondere a eventuali attacchi bioterroristici.

PER UN PAESE COME L’ITALIA, rilasciare una licenza obbligatoria su un farmaco così redditizio rappresenterebbe una dichiarazione di guerra alle società farmaceutiche, con prevedibili e pesanti rappresaglie. L’Italia, tra l’altro, si è candidata ad ospitare a Milano l’ambitissima nuova sede dell’Agenzia Europea del Farmaco, che dopo la Brexit dovrà lasciare Londra. La concorrenza è grande, soprattutto da parte di Vienna e di Amsterdam, perché intorno all’Agenzia si potrebbe sviluppare un importante indotto di servizi. Difficilmente il governo vorrebbe arrivare alla decisione (prevista per settembre 2017) nel mezzo di un conflitto con la lobby dell’industria farmaceutica.

L’altra strategia, più realistica, è quella di sfruttare la concorrenza con farmaci ancor più nuovi. Infatti, altre società farmaceutiche stanno mettendo in commercio nuove molecole anti-epatite con la stessa efficacia del sofosbuvir, come Viekira Pak della Abbvie e lo Zepatier della Merck. È probabile dunque che Melazzini punti ad accordarsi, se non l’ha già fatto, con aziende diverse dalla Gilead. Le prospettive di profitto di quest’ultima, dunque, sono destinate a ridursi. È quel che prevedono anche gli investitori, se le azioni Gilead a Wall Street valgono oggi 60 dollari, la metà del massimo storico raggiunto nel 2015.

NELLA SPERANZE di Melazzini, dovrebbe così cessare il turismo farmaceutico diretto principalmente verso l’India, dove la cura costa solo 600 dollari. Potrebbe però allargarsi il fenomeno dell’importazione parallela, dove recentemente è stato stabilito un precedente legale importante. Il tribunale di Roma, infatti, ha concesso a un pensionato milanese di importare via web il farmaco sofosbuvir, sostenendo che l’importazione per il solo uso personale non viola la legge. L’automedicazione non è certo una pratica raccomandabile, ma di fronte a mali estremi un malato non rinuncia facilmente agli estremi rimedi.

 

 

Le linee guida per l’accesso alle cure

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L’epatite C è una malattia infettiva virale identificata con chiarezza negli anni Ottanta. L’infezione si contrae per contatto con il sangue. Circa 130-150 milioni di persone al mondo ne sono infettate. In Italia ne è affetto un milione e mezzo di malati, con diecimila decessi e circa mille nuovi casi ogni anno. Finora, l’epatite C era curata con l’interferone, efficace nel 60% dei casi e con pesanti effetti collaterali, e con il trapianto di fegato. Dal 2014 sono stati immessi sul mercato farmaci basati sul sofosbuvir. La terapia consiste in una pillola giornaliera per circa tre mesi, con un tasso di successo del 90%. Dal 2016 sono in commercio altri farmaci analoghi. In Italia, l’accesso alle nuove terapie è stato limitato a circa 67mila pazienti secondo i dati aggiornati al 6 marzo, selezionati in base a linee guida emanate nel 2014 dall’Agenzia Italiana del Farmaco. In maggioranza si tratta di pazienti affetti da fibrosi (18 mila) e cirrosi nelle fasi iniziali (44mila). Le nuove linee guida includono nuove categorie che allargheranno la platea degli interessati: operatori sanitari infetti, malati in dialisi e chi è in lista d’attesa per trapianti di organi diversi dal fegato.