La 90/91 è sempre stata una barriera psicologica per chi abita a Milano. I due numeri indicano le linee di filobus che percorrono la circonvallazione esterna. Al di là ci sta la periferia, al di qua la semi periferia e il centro e da sempre misura, oltre l’indirizzo, anche lo status sociale. Appena vi arrivai, oltre trentacinque anni fa, sentivo dire «Ah non andrei mai a vivere al di là della 90». Senonché le cose cambiano e, sebbene certe zone costino sedicimila euro a metro quadro, non è detto che viverci sia sempre comodo perché vi sono cose fondamentali come il fruttivendolo o il panettiere che non trovi sotto casa.

È pur vero che certe famiglie possono farsi mandare gli astici direttamente dall’allevatore svedese, o recarsi alle boutique del gusto dove il prosciutto lo paghi come in gioielleria, però resta il fatto che, se ti viene voglia o bisogno di un litro di latte, in certi palazzi non puoi dire «Scendo e lo compro» perché il lattaio sotto casa proprio non c’è. Ognuno ha le sue croci, che ci volete fare.
Come tutte le città ambite, Milano non conosce la flessione del mercato immobiliare e sta abbattendo la barriera della 90. Secondo un recente studio della Fimaa (Federazione italiana mediatori agenti d’affari), negli ultimi cinque anni il valore delle case nella periferia milanese è cresciuto moltissimo. Si va dal più 50% di abitazioni nella zona Cermenate-Ortles al più 40% di Quarto Oggiaro o più 45% di Gratosoglio-Missaglia. La ragione è semplice. Lì puoi ancora pagare gli appartamenti fra i 2500 e i 3900 euro al metro quadro, esattamente la metà o un terzo di posti centrali o semi centrali. Se poi dovesse realizzarsi il progetto di riqualificare le periferie, detto anche la città dei 15 minuti, i prezzi saliranno ancora espellendo sempre più all’esterno chi ha poche possibilità economiche. Significa anche che la città diventerà sempre più classista ed escludente, con il rischio di impoverire anziché arricchire la varietà antropologica che poi è ciò che rende affascinante uno spazio urbano.
Qual è il collante di un quartiere? Che cosa porta le persone ad avere voglia di abitarci, incontrarsi e parlarsi? Se devo basarmi sulla mia esperienza, posso dire che è un insieme di storia abitativa e struttura urbana, ricchezza interiore delle persone e luoghi accoglienti che non necessariamente significa danarosi. Ho sempre abitato in quartieri popolari e con abbondante vita al suolo, intesa come disponibilità di negozi e servizi, eppure in alcuni ho sentito il senso di comunità, in altri una sorta di auto isolamento.
La differenza è determinata dall’urbanistica e dalle ragioni per cui sono nati quegli spazi. Nei quartieri costruiti in fretta e pensati per essere dormitori (palazzi popolosi, vie ortogonali, niente piazze, pochi luoghi di ritrovo, molte auto, nessun artigiano) le persone sono come rivestite di tristezza e chiusura. In quelli magari più sgarrupati, ma con una tradizione operaia e artigiana di lungo corso e un tessuto formato da tante piccole piazze, la gente si guarda in faccia, si saluta ed è disposta a chiacchierare anche se non si conosce. È come vivere in una città fredda e in una città calda, eppure sempre a Milano.

È la prova che la speculazione immobiliare potrà sì aumentare il valore al metro quadro e sfondare la barriera della 90, ma non basterà a determinare la vivacità di un quartiere. Le città sono un po’ come le persone. Sono le differenze a rendere gli insiemi interessanti e creativi. Ma le differenze bisogna volerle e aiutarle, e anche questo è politica.

mariangela.mianiti@gmail.com