La ragazzina si chiama Sabine, la zia la veste di bianco e la minaccia di non sporcarsi: è una vera cattiveria visto che per andare a scuola deve attraversare la foresta. Lei poi è distratta, un po’ impertinente, molto infelice, la mamma è emigrata in Francia e l’ha lasciata in Guadalupe.«Ti ha dimenticata» le sbatte in faccia la figlia della donna da cui vive. Quel 4 aprile 1968 la bimba insegue un cane nella foresta, si sporca il vestito, incontra un ragazzo, Akim, che parla un po’ francese e un po’ inglese. Con lui c’è una ragazza, grida, lo accusa, ha i capelli corti e liberi, il creolo lo ha dimenticato, e a Sabine le treccine strizzate della zia fanno così male. A Memphis intanto qualcuno ammazza Martin Luther King …

Il cortometraggio di Myriam Garbi – nel concorso corti africani – parla di Black Panther e lotte per l’indipendenza, e lo fa in modo eccentrico, obliquo, senza materiali d’archivio – anche se soprattutto la ragazza è molto vintage Angela Davies (forse con un po’ di isterismo di troppo) – ma attraverso l’incontro tra una bimba che subisce tradizione, autoritarismo domestico e colonizzazione culturale e scolastica (francese) e due Pantere Nere con la loro «lezione» (persino incosapevole: come spiegare a una ragazzina cosa sono le Pantere nere se non dei grossi gatti che vivono in Africa?) di potenza destabilizzante dell’immaginario.

Cosa vuoi fare da grande? Al tema in classe Sabine risponde: «Studiare gli animali, andare in Africa, vivere con le ’Pantere nere’». Cioè diventare un veterinario, chiosa l’insegnante. E lei: « No, voglio essere una viaggiatrice, un’esploratrice, un’avventuriera». Ovvero ribellione a ruoli predestinati, e una lotta che coi capelli libera l’autodeterminazione facendo saltare parametri, luoghi comuni, impasti culturali. Il Festival del cinema africano di Milano festeggia quest’anno i suoi venticinque anni, tra i primi in Italia a «importare» immaginari africani – dopo le Giornate di Perugia nate agli inizi degli anni Ottanta. Tra i titoli che vengono presentati nella sezione Classici africani c’è Touki Bouki di Diop Mambety, film da vedere e rivedere sempre, (a proposito di riappopriazione degli immaginari), irruenza anarchica e manifesto di un cineasta geniale, che rifiuta qualsiasi ingerenza e non si piega ai modelli africani «da esportazione». Difatti Diop Mambety farà nella sua vita pochissimi film, non è facile trovare un budget in coproduzione mantenedendo l’ autodeterminazione dell’immagini. Del resto nel tempo la relazione di «dipendenza» dall’occidente (postcoloniale) ha piegato il cinema africano costretto a «nonne» e «brousse» per soddisfare le aspettative. Il punto debole che solo qualcuno aveva capito? La mancanza di tecnica e strutture autonome – a parte Nollywood e poco altro.

Sono i punti fermi che attraversano anche il cinema di Sembene Ousmane, cineasta e scrittore senegalese, pioniere di un’arte africana indipendente, critica, e di ricerca di cui viene proposto Borom sarret (1963), venti minuti nella giornata di un carrettiere povero a Dakar a cui viene sequestrato il carretto perché ha oltrepassato i limiti che dividono la città dei poveri da quella dei ricchi.
Sembene, di origine operaia, con humor sferzante e libertà sgretola divieti e pregiudizi religiosi, sessuali, politici utilizzando tradizioni popolari (i film non devono mai essere noiosi), e lingua wolof o diola, perché l’85% del suo pubblico è analfabeta.
I suoi film interrogano senza risposte né proclami rovesciando i rapporti di potere «tradizionali», e la sua scommessa (che anche lui ha pagato con progressiva emarginazione da parte francese) era aprire la storia del cinema africano postcoloniale,combattendo i mali di un’Africa «ingabbiata» come troppo immaginario contemporaneo.