A parte gli addetti ai lavori, pochi oggi ricordano le canzoni, gli scritti, le iniziative, gli impegni nell’attività politico-culturale di Ivan Della Mea – nato a Lucca il 16 ottobre 1940 e morto a Milano il 14 giugno 2009 – che della musica degli anni Settanta risulta la figura militante per eccellenza e di stimolo all’intera sinistra, tra i pochissimi, lungo il decennio, a far dialogare il Partito comunista italiano e i movimenti extraparlamentari. Per tentare di evitare del tutto il misconoscimento di un artista coerente e di un intellettuale soprattutto, l’Istituto Ernesto De Martino pubblica, quasi in contemporanea, un disco e due libri dello stesso Della Mea. Il primo è un cd intitolato Ho male all’orologio, una ristampa del 1993, il secondo è il volume antologico Il penultimo comunista. Scritti sulla politica (1993-2009) e soprattutto il terzo dal lungo titolo E chi può affermare che un sampietrino non fa arte? Scritti sulla musica (1965-2009) entrambi curati da Jacopo Tomatis (tra le ultime leve, il massimo esperto di popular music).

MILITANZA
In quest’ultimo testo Della Mea riflette sulle proprie canzoni, sugli album registrati (quasi sporadicamente, in circa mezzo secolo), sui valori del folklore, sull’impegno nel canto militante, sui tanti diversi colleghi cantautori: il tutto con acume, intelligenza, vis polemica, da buon irriducibile marxista. C’è però un capitolo che andrebbe esaminato attentamente, poiché rispecchia una questione parecchio discussa negli anni Settanta, i Festival de l’Unità, o meglio la programmazione musicale in seno a questi ormai megaraduni che proprio durante i Seventies si fanno promotori di grandi eventi concertistici. Intervistato da Claudio Bernieri nel 1977 per il libro L’albero in piazza… Storia, cronaca e leggenda delle feste de l’Unità e ora raccolto da Tomatis, alla domanda se il festival deve stimolare riflessione e decentramento culturale, Della Mea risponde: «(…) Secondo me stimola soltanto i produttori, stimola Tony Esposito piuttosto che Bennato, non stimola nessuno a livello di base. La gente, è normale, viene relegata al ruolo di spettatore. È il solito discorso che ho fatto diecimila volte: non ci vuole niente a fare una tarantella e a far ballare diecimila persone. Il festival di tanti anni fa, con quel taglio vagamente stalinista, era un prodotto di elaborazione. Le sezioni che partecipavano al festival, se lo scazzavano questo festival. Era una creatività molto povera, ma oggi è diventato il festival degli scienziati, ci sono i tecnici, gli architetti».
La contraddizione nasce nella compresenza e nella qualità di grossi e piccoli festival: «(…) Bisogna mettere in discussione la validità del grosso festival e se non è invece il caso di recuperare la dimensione dei piccoli, però gestiti a livello di base. Se no, cosa succede? Chiamiamo Bob Dylan che costa solo 80 milioni dicono quelli della Fgci; chiamiamo i Rolling Stones; e a questo punto diventi un manager. E chi è d’accordo?». E qui Ivan fa il nome di un personaggio tuttora attivo «importatore di musica, ha il suo menu, c’è dentro Don Cherry, Archie Shepp, Cecil Taylor… In America questi non suonano più, insegnano. Comunque è meglio dare 2500 dollari a Don Cherry che 2 milioni al Banco del Mutuo Soccorso. Però sei in una logica (…) Cioè basta con le mondine perché hanno scassato il cazzo e cosa viene fuori, la Milva? Allora non ho dubbi. Quello là perché negro ci va bene, questa qua perché mondina, no? I De Gregori, i Venditti, che di fatto gli ha dato un pubblico? Chi li ha tirati fuori dal Folkstudio? Sono stati i festival a dare nuovo spazio a quella che poi è stata definita la canzone nazional-progressiva. È meglio De André che la Berti? No, ci ho pensato, forse è meglio la Berti, perché quello là vende intellettualismo a palate e a milioni; questa qui è come gli gnocchi e i tortellini (…)».
Da buon compagno Della Mea è infine in grado anche di fare autocritica: «(…) Michele Straniero, to to to, e anche noi finiamo per aderire a questa logica, appena ci buttano l’esca, il Nuovo Canzoniere, trrr, facciamo uno spettacolo dove cerchiamo di metterci tutto, le mondine, i pastori di Orgosolo, la Madonna, Gesù bambino (…)».

NESSUN PRIVILEGIO
Chi certo non gode dei privilegi delle Feste de l’Unità è Paolo Ezio Luigi Ciarchi – nato a Milano il 14 novembre 1942 e morto, sempre nel capoluogo lombardo, il 16 maggio 2019 – che vive un paradosso come artista: è da ritenersi forse il maggior esponente della musica degli anni Settanta e al contempo è da annoverare tra quelli meno noti sia all’epoca in cui è la figura ombra di molti colleghi sia oggigiorno con la sola iniziativa dell’Istituto Ernesto De Martino assieme agli Archivi della Resistenza e del Circolo Edoardo Bassignani, a ricordare l’operato con il cd antologico Cent’anni di moltitudine. Stefano Arrighetti, presidente dell’Istituto, a poche ore dalla scomparsa lo commemora in questo modo: «(…) L’Istituto Ernesto De Martino perde il suo piccolo uomo, uno dei suoi pilastri; il musicista che non ha mai prodotto un long playing tutto suo, ma ha suonato e cantato nei dischi di tutti e non solo con i cantori del Nuovo Canzoniere Italiano. Aveva cominciato nella Milano del cabaret, con Jannacci e Dario Fo, con cui lavorò per anni ne La Comune per poi incontrare, dagli anni Settanta, jazzisti e improvvisatori come Paolino Della Porta, Riccardo Luppi, Attilio Zanchi, gli Area (…)».
Ciarchi diventa quindi un sessionman richiestissimo soprattutto nei circuiti alternativi dove stringe ulteriori amicizie proprio con Della Mea in un sodalizio collaborativo durato un’intera vita. Dal 1967 al 1973 Paolo collabora quindi come attore, accompagnatore, arrangiatore (spesso in scena) a tutti gli spettacoli di Dario Fo (sempre più apertamente schierato con la sinistra extraparlamentare) per il quale compone la parte sonora di ogni canzone: scrive, ad esempio, non accreditato, la celeberrima Ho visto un re, portata al successo da Enzo Jannacci.
Un bel ricordo affiora dal giovane amico Alessio Lega, tra i pochi folksinger odierni di assoluto impegno civile: «(…) la genialità cialtrona, la terribile serietà, l’indomita indifferenza agli schemi, l’essere sempre pronto a mischiare tutto e criticare tutto. Le parole, sentite mille volte sempre nuove. Le idee granitiche, che neanche con un bulldozer lo convincevi il Paolo. L’impegno, l’aver scelto un lato preciso della barricata (senza nessuna particolare venerazione per la barricata in sé), aver sempre lottato, sempre soprattutto con il sorriso».
Per Ciarchi infine la canzone rappresenta «(…) Un medium facilmente circoscrivibile – è sempre Lega a rammentare – ovvero su ciò che Paolo ha fatto nel campo della canzone (…) che forse non è stato il suo principale impegno, ma che senz’altro ha attraversato con maggiore o minore intensità tutte le fasi della sua vita». Confesserà ancora Lega con rammarico, quasi a parlargli a tu per tu nel booklet del cd: «Il mio pallino fisso per anni è stato quello di farti fare un disco nel quale ricantarvi i brani scritti con Fo, mi sembrava uno dei contributi maggiori alla storia della canzone d’autore che io venero e tu proprio per niente. Mi sembrava soprattutto un modo di ristabilire un po’ di giustizia per un repertorio abbandonato all’oblio (non risulta nemmeno depositato in Siae), per colpa della tua indifferenza al successo e del velo che Fo aveva disteso sulla parte più politicamente estremista della sua carriera. Forse anche un modo di farti fare due soldi, vista la celebrità del Premio Nobel che aveva scritto con te ‘le sue canzoni più belle’ (queste sono parole tue… evidentemente un po’ di consapevolezza non ti mancava)».