Da dove incominciare nel descrivere il disordine del mondo e, al tempo stesso, la sua penetrazione in ogni aspetto e interstizio delle vite particolari e della vita collettiva? A prima vista da nessuna parte, da nessun luogo, da nessuna consolidata Weltanschaung. Così Lorenzo Marsili sceglie di affidarsi a un vagabondaggio attraverso la storia, attraverso i continenti, le ideologie e le crepe dello spazio globale e a un’immagine mitologica: l’uroboro, il serpente che si morde la coda e imprime così un nuovo giro al corso degli eventi. Vagabondaggio attento, però, e non privo di un fine, o di una aspirazione. Quella di ricondurre nelle mani della collettività umana il «farsi mondo del mondo» che sembra esserle sfuggito in un automatismo fuori controllo ma non estraneo al sistema di poteri che se ne servono e ne certificano la spontanea «razionalità». (La tua patria è il mondo intero, Laterza, pp.180, euro 16).

PIÙ VOLTE RICORRE IL NOME di Babele, richiamata anche in un suggestivo passo di Stefan Zweig scritto nel pieno della Grande guerra, ed è dunque dalla leggenda della sua Torre, quella che avrebbe dovuto bucare il cielo per scalare il trono della divinità, che potremmo prendere le mosse. Come è noto l’impresa fallì nella frammentazione dell’umanità che l’aveva intrapresa e nel disfarsi della lingua comune che stava a fondamento dell’agire comune e della sfida. Stessa sorte sarebbe toccata a quell’universalismo europeo e poi «occidentale» attraverso la catastrofe delle due guerre mondiali, la decolonizzazione e poi il ripiegamento dell’egemonia americana. Chi è affezionato ai grandi affreschi dipinti dalla filosofia della storia si diletterà nell’immaginare una sequenza che dal secolo europeo, attraverso quello americano, conduca al secolo asiatico e forse, poi, a un secolo africano. Ma la verità è che questa egemonia continentale sul tempo storico si fa sempre più aleatoria.

Fatto sta che la nuova Babele, perduta l’universalità della lingua politica ha conservato tuttavia quella del linguaggio economico che continua la sua scalata verso la conquista della totalità. È il pensiero dei «due mondi», fatto risalire a Hajek, anch’egli suggestionato dalla Grande guerra, che scinde uno spazio economico globale regolato dalle leggi del mercato dalle sovranità statali ristrette nei confini nazionali e dedite, nei limiti loro consentiti, al controllo e alle mediazioni sociali.

MA NELLA STORIA UMANA le camere stagne funzionano fino a un certo punto: sui mercati agiscono soggetti influenzati dai più diversi fattori psichici e culturali, così come ai vertici statali non difetta il gusto per gli affari e la brama di accumulazione. Del resto già gli antenati del liberalismo immaginavano che i commerci avrebbero sostituito le guerre, che si posero invece al loro servizio. Inoltre, la «lingua universale» dell’economia non è compresa da tutti neanche all’interno di un singolo paese. Il significato delle sue asserzioni cambia a seconda della posizione in cui ci si venga a trovare. Ciò che per alcuni designa la razionalità del proprio agire, se non il migliore dei mondi possibili, per altri significa un sistema di regole estraneo ed oppressivo.

Quella che Marsili chiama «l’ultima ideologia» e Dardot e Lavalle hanno gratificato del titolo di «nuova ragione del mondo», la dottrina neoliberale insomma, è attraversata da violente tensioni e linee di frattura. E, tuttavia, il tessuto delle interdipendenze (con tutte le dinamiche caotiche del caso), la rete planetaria dei flussi informativi e finanziari, è talmente fitto ed esteso che solo una lingua «universale» della politica può tentare di farvi fronte. Non vi è, in altre parole, possibilità di pensare la trasformazione dei rapporti e delle condizioni di vita all’interno di una comunità politica senza partire da un punto di vista «universale», da una «idea di mondo». Non intese come uno sfondo, uno scenario remoto e indistinto, né come sommatoria di realtà particolari, ma come un flusso all’interno del quale ci troviamo completamente immersi. Circostanza che ci consente di attingere a diversi patrimoni culturali, interpretati, come insegna il grecista e sinologo francese François Jullien, non come identità rigide ma come originali sedimentazioni storico-culturali a disposizione dell’umanità intera.

E INFATTI MARSILI non esita a servirsi del pensiero filosofico cinese, classico e contemporaneo, con il suo sguardo rivolto alla totalità del mondo e al corso millenario del tempo, volto però a coglierne la dimensione «politica» e i possibili equilibri. Alla ricerca di una via che sconfigga la combinazione perversa tra frammentazione delle comunità politiche e accentramento del potere economico. La questione dell’Universale si ripropone così, nei termini definiti da Etienne Balibar, come un’impresa incompiuta, un confine mobile, una lingua in fieri, una finalità alla quale ispirarsi. Una idea di Universale che il filosofo francese intende contrapporre all’ «universalismo», con le sue gerarchie e le sue inevitabili esclusioni.

Come tradurre tutto questo in una politica capace di agire sulla scala dei grandi poteri globali con altra logica e altre finalità? Si è costretti a procedere, qui, più per esclusione che non seguendo una rotta precisamente tracciata dalla teoria. A partire dai fallimenti e dalle impasse che la storia ci ha mostrato. Dall’utopia cosmopolita borghese con i suoi esiti imperialisti, all’internazionalismo proletario fagocitato dalla politica di potenza sovietica. Fino all’«altermondialismo» dei primi anni Duemila la cui polifonia democratica finì col convertirsi in debolezza e, infine, in dispersione. Ma che rimane, ad ogni buon conto, l’esperienza più ricca e più vicina. La sfida resta quella di procedere verso una formazione o una rete di formazioni democratiche transnazionali che superino lo stadio puramente discorsivo del movimento d’opinione, andando ad occupare, sostiene Marsili, gli spazi, anche istituzionali, che il capitalismo, nel susseguirsi delle sue crisi, ha dovuto aprire per proteggere sé stesso dai suoi propri eccessi, cedendo terreno alle ragioni e ai soggetti che gli si opponevano, salvo affrettarsi a richiuderli o a stravolgerne le funzioni.

Se le esperienze innovative e i tentativi di resistenza non mancano, così come fenomeni di lotta che investono questo o quel ganglio dell’ordine mondiale, mentre la marcia del neoliberalismo si fa sempre più accidentata, il mondo sembra tuttavia muovere in tutt’altra direzione: quella del nazionalismo e del risentimento sociale, accompagnati da un sistema di potere che si è sottratto ai vincoli di qualsivoglia patto sociale. La paura è il carburante che più di ogni altro alimenta questa macchina. E forse solo una paura maggiore potrebbe arrestarla. C’è voluta Fukushima (Cernobyl non era stata sufficiente) perché paesi come la Germania recedessero dalla scelta nucleare. Quante catastrofi, quanta coda dovrà ancora ingoiare l’uroboro perché gli squilibri planetari e la medicina nazionalista peggiore del male finiscano nella pattumiera della storia? Meglio se fosse la paura di un’insorgenza mondiale a invertire l’attuale corso di una politica che va trasformando la sua cecità in ferocia.