Nel dicembre del 1983, Ellendea e Carl Proffer – una stravagante coppia di editori statunitensi che da più di un decennio si dedicavano tenacemente alla diffusione di quella parte eterodossa della letteratura russa ritenuta impubblicabile in patria – si videro recapitare ad Ann Arbor, Michigan, l’ennesimo manoscritto. L’autore, Saša Sokolov, era tutt’altro che uno sconosciuto; sette anni prima la minuscola casa editrice da loro diretta, Ardis, ne aveva già dato alle stampe in russo il romanzo di esordio La scuola degli sciocchi, virtuosistico monologo dell’allievo di un istituto per ritardati mentali che Vladimir Nabokov, certo non incline alle lusinghe, definì «incantevole, commovente e tragico».
L’ardito sperimentalismo linguistico della successiva prova, Un po’ lupo, un po’ cane, aveva contribuito a creare intorno a Sokolov (che nel frattempo si era stabilito in California) la fama di genio solitario, insofferente non solo ai diktat del realismo socialista, ma anche all’enfasi moralistica di cui risentivano le opere di tanti emigrati. Nella loro assoluta originalità, i suoi romanzi sembravano meteoriti verbali giunti da una distanza siderale: impegnati a suggerire l’esistenza di altri mondi più che a riflettere quello reale, dichiaravano sfacciatamente la loro orgogliosa estraneità al suolo terrestre.

Notevole fu dunque lo sconcerto dei Proffer, quando si resero conto che in quel manoscritto dall’oscuro titolo, Palissandreide, Sokolov tornava inopinatamente sul nostro pianeta per occuparsi degli attempati gerarchi che all’inizio degli anni Ottanta si succedevano al Cremlino con sconcertante rapidità. La satira politica – quanto di più lontano si potesse immaginare dallo sfrenato lirismo cui Sokolov aveva abituato i suoi lettori – sembrava infatti dominare quel nuovo testo che Ardis pubblicò nel 1985 con qualche titubanza, temendo di compromettere definitivamente i rapporti già tesi con le autorità sovietiche.

Tuttavia, lo sberleffo alla mummificata gerontocrazia di Brežnev e Andropov è solo il più superficiale tra i tanti livelli che compongono Palissandreide, ora finalmente accessibile anche al pubblico italiano nella tersa, ammirevole traduzione di Mario Caramitti (Atmosphere, pp. 430, euro 18,00). Per comporre questo libro-mondo, questa galassia in permanente, tumultuosa espansione, Sokolov riprende procedimenti già sperimentati nel suo romanzo di esordio, disintegrando il flusso narrativo in una concatenazione ritmica di divagazioni. Ma se nella Scuola degli sciocchi il punto di vista del protagonista – per quanto scisso, contraddittorio e straniante – serviva da trait d’union tra i frammenti del testo e conferiva loro una seppur precaria unità, qui la sensazione è di ritrovarsi di fronte a un universo irrimediabilmente esploso.

Non solo una epopea grottesca
Per attraversare senza soccombere l’esuberante massa verbale, il brodo primordiale di Palissandreide, il lettore è costretto a immaginare che (come suggerisce il titolo) sia in gioco «solo» l’epopea grottesca di Palisandr Aleksandrovic Dal’berg, pronipote del sodale di Stalin Lavrentij Ber’ja, una specie di mostro iperdotato che, cresciuto nell’atmosfera cimiteriale della scuola degli «orfani del Cremlino», prova precoci e perversi trasporti erotici per donne in età sinodale. Indubbiamente Palissandreide è anche questo, e difatti il curatore-traduttore nella sua postfazione enumera addirittura le pagine «indispensabili» per ricostruire la fabula nella sua linearità cronologica. Al tempo stesso, Sokolov fa letteralmente di tutto affinché il destinatario del testo non si adagi nella rassicurante sensazione di condividere con l’autore lo stesso orizzonte linguistico e immaginativo; al contrario, la sua aspirazione è scaraventare chi legge nell’universo magmatico di una libertà impregiudicata, originata dal processo stesso della scrittura. Da qui le metamorfosi di Palisandr, che è non solo pronipote di Berja, ma anche nipote dell’impostore Grigorij Rasputin, quindi gravato da un’inaffidabilità di narratore trasmessa per via genetica, ulteriormente complicata dalla sua natura di irrefrenabile grafomane o, meglio, di ventriloquio dissociato, capace di plasmare senza posa le proprie memorie nei registri stilistici più diversi.

Un meccanismo fantastorico
In quell’elaboratissimo collage postmoderno che è Palissandreide Sokolov non solo scocca frecciatine intertestuali ai compagni di emigrazione (su tutti Eduard Limonov, Iosif Brodskij e Aleksandr Solženicyn), ma si diverte anche a calare le avventure pseudo-picaresche del suo protagonista nelle convenzioni narrative dell’eterogeneo «pattume» letterario di cui aveva scoperto l’esistenza nel 1975, una volta giunto in Occidente: spy stories, romanzetti pornografici, l’autobiografia della figlia di Stalin Svetlana Allilueva fuggita in America… Il tutto contaminato da una ironica inclinazione all’autofiction: nelle gesta di Palisandr, supponente enfant prodige cresciuto all’ombra del Cremlino (o, più precisamente, di quella torre dell’orologio alle cui gigantesche lancette s’era impiccato suo prozio Lavrentij), pare di rintracciare una eco dell’adolescenza dello stesso autore, nato nel 1943 a Mosca in una famiglia privilegiata (suo padre era stato un agente segreto), un po’ figlio di papà, un po’ ribelle (a diciannove anni aveva tentato di lasciare clandestinamente l’Unione Sovietica passando la frontiera con l’Iran).

Perciò Palissandreide è sì, in parte, una sorta di «anti-Lolita», come ha notato Donald B. Johnson, biografo di Sokolov, richiamandosi all’ossessiva gerontofilia del protagonista; ma è, soprattutto, un affascinante, pluristratificato meccanismo fantastorico destinato a influenzare, a cavallo del nuovo millennio, anche Viktor Pelevin e Vladimir Sorokin. Riunendo tutte le generazioni di leader sovietici successivi a Lenin in quello che Caramitti chiama un «asfittico cronotopo intimizzato», l’autore crea un universo orrifico e, insieme, carnevalesco, dove «zio Iosif», alias Stalin, va a pesca con Berja, Stravinskij frequenta i ricevimenti nel Ducato del Belvedere in cui si parla etrusco e Palisandr, per compiere la missione segreta che Andropov gli ha affidato, raggiunge l’Occidente in dirigibile.
La dimensione temporale di Palissandreide è infatti quella perfettamente immobile del Bezvremen’e (Nontempo), dove epoche storiche apparentemente inconciliabili vengono a coincidere. Lungi dall’essere soltanto una metafora della stagnazione brezneviana (talvolta designata in russo proprio con questo nome), il Nontempo diventa per Sokolov l’equivalente di ciò che per Nabokov in Speak, Memory! era stata la dea del ricordo Mnemosine: una musa bifronte che, legando a doppio filo passato e futuro, apre spazi dove tutto è possibile.