La pianista si chiama Chiara Saccone. Giovane, preparatissima. Forse andando a Reggio Emilia non ha messo in conto di rivelarsi protagonista dell’accadimento più esplosivo di un’intera rassegna/seminario intitolata Dialoghi sul comporre. Impegnata e decisa, questo sì. Giuseppe Chiari è il suo autore. Esponente di Fluxus, morto dodici anni fa. Curioso che emerga e tocchi cuori sensi e cervelli (stanno in un unico flusso, si sa) durante tre giorni di discussioni e interpretazioni di musiche contemporanee tra compositori e strumentisti o ensemble italiani di generazioni abbastanza recenti. Ma è il gran colpo di questa sesta edizione dei Dialoghi e non c’è niente da fare.

CHIARI testa libera e avventurosa, rimasto sempre sotterraneo. Outsider di lusso. Le classifiche ufficiali non lo vedono ai primi posti. Ma lui pensava e viveva da sopraffino sperimentatore e molti dei problemi che circolano qui a Reggio tra i compositori di oggi li aveva risolti a modo suo: con le intuizioni fulminanti, con le sue meticolose (probabilmente sadiche) indicazioni per l’esecuzione di lavori come Metodo per suonare il pianoforte (1962-1964). Che è il pezzo suonato da Chiara Saccone. Indicazioni di gesti, di posture «insensate» del corpo, di uso eterodosso ma precisissimo delle mani, dei pugni, delle braccia. Saccone è osservante e così mette in scena un rito sovversivo che lascia divertiti e sconvolti.
Musica da vedere. Sì, certo. Anche. Gesti prescritti, quindi «meccanici». Ginnastica da camera. Ma il risultato sonoro è meraviglioso. Sequenze separate di violenza e tenerezza. Cluster bellissimi, posti con una originalità mai sentita. Chiari non dimentica mai la musicalità, l’obiettivo di mettere in circolo musica ricercata. Pugni delicati sulla tastiera, delicati colpi di karate: sapienza compositiva enorme. Lievi colpi col dorso della mano. Tante prescrizioni esecutive, nessun dogmatismo della filosofia sonora. Qui come raramente accade si respira aria di libertà.

Che cos’è Dialoghi sul comporre. Meeting accolto con tutti gli onori a Reggio Emilia, tramite I Teatri, ai Chiostri di San Pietro, al Teatro Ariosto, all’Istituto Peri. Composizioni suonate dal vivo o fatte sentire in video per delineare le possibilità di far musica oggi, musica che stia nel tempo e rompa possibilmente la cortina di silenzio stesa dai media e dalle istituzioni intorno alla «contemporanea colta». Conferenze di musicisti e musicologi, accenni di discussione. Purtroppo solo accenni, e sì che di spunti ce ne sarebbero parecchi. Ma il programma della tre giorni è follemente fitto di nomi ed eventi. Si sono contati 62 brani di musica, ma il conto potrebbe essere sbagliato in difetto.

POI ARRIVA un concertista che presenta grandi classici (non certo da museo) e propone una «inattualità» incredibilmente viva, come teorizzato da un Agamben, vale a dire autori di ieri dirompenti. Francesco Prode, pianista, come oratore è polemico: inutile secondo lui l’ecumenismo e l’ottimismo – chiaro riferimento a una tavola rotonda in cui musicisti e musicologi hanno mostrato fiducia nelle istituzioni e ostentato un gradimento per la «contemporanea» che in Italia non pare proprio che ci sia, con un unico opinionista dissonante, Stefano Vallauri Lombardi: «la musica contemporanea rischia l’istituzionalizzazione» -, ci sono tanti autori inutili più o meno giovani, scegliamo le voci veramente creative.

Prode suona da par suo, cioè alla grande, con impeto e visione ampia, Canteyodjaya (1948) di Olivier Messiaen. Che fascino! Tempeste della «natura sociale», come direbbe Donna Haraway: la natura cambia, è in divenire, è un soggetto insieme a noi. Oasi di capricci delicati, ostinati, selvaggi e calcolate sequenze di accordi tutti asprezza gioiosa. C’è il piacere nel «mistico» Messiaen. E sapienza dell’armonia decostruttiva. Prode suona anche le Variazioni op. 27 (1936) di Anton Webern, tre movimenti-lampi, l’opera da portare nell’isola deserta, e qui cade. Le suona classiche come se fossero di Mozart o di Haydn, ignora la sovversività della ricerca, tutto diventa un gradevole pezzo da salotto.
Tra gli interpreti ce ne sono vari impegnati in una gran quantità di imprese. Il percussionista Simone Beneventi, per esempio. Tra gli altri suona Mario Bertoncini: Tune per piatti sospesi e nastro (!965). Echi siderali da incantamento e violente rifrazioni, è qualcosa di talmente contemporaneo, nel senso esistenziale e non cronologico, da restare sbalorditi. Ma è un altro morto (meno di un anno fa).

E I COMPOSITORI viventi a convegno? Che dire, che fare con le loro musiche? Giuliano Bracci con il quartetto d’archi Maurice in video mostra la spregiudicatezza romantica e da ambient metafisico (si potrà dire?) di Une petite fleur bleue (2005).
Giovanni Bertelli in conferenza si chiede giustamente come mai la musica contemporanea per teatro è così simile a quella del passato tanto da apparire accademia. E poi fa ascoltare in video un suo bel pezzo indisciplinato (al pianoforte Emanuele Torquati) dove sembrano essere evocati Jelly Roll Morton, Giancarlo Cardini e Maurizio Kagel e si gioca sull’amnesia, sull’errore, sul gesto mancato. Roberto Conz affida al pianista Stefano Malferrari il suo Still (2019). Come un webernismo dilatato in cui la consequenzialità melodica fa quasi intravedere una tentazione di tonalità.