La storia di Fausto Coppi è tutta in quel lembo di Piemonte che tocca Liguria, Emilia Romagna e Lombardia. La leggenda di Fausto Coppi è nata altrove, sulle strade del Giro d’Italia, del Tour, della Vuelta, della Sei Giorni, dei Campionati del mondo.

Qui, a Castellania, Pozzollo Formigaro, Novi Ligure, Tortona, provincia di Alessandria tra la pianura e i Colli Tortonesi, senti raccontare di un ragazzino alto e magro che inseguiva il sogno di una bicicletta; di un padre che lo voleva a lavorare la terra e di una madre che gli aveva dato due sorelle e due fratelli; di un massaggiatore cieco che nei muscoli e nel cuore di quel ragazzino aveva letto il futuro da campione; della squadra ciclistica di una fabbrica, fucina di formidabili gregari; di amicizie lunghe una vita, matrimoni diversamente infelici, figli amati troppo poco per colpa della malasorte; di un fratello perduto, che condivideva identica passione; di un’ultima salita senza bicicletta, fino al colle di San Biagio.

La memoria di Coppi è una memoria diffusa. A Castellania, il frammento più importante, Fausto era nato il 15 settembre di un secolo fa.

Dalla nebbia di un mattino primaverile emergono le case del paese, novanta abitanti. I muri di ciascuna incorniciano una gigantesca foto in bianco e nero del Campionissimo.

Un passante, presenza rara, indica la direzione verso la tomba di Fausto e Serse. In cima a una scalinata, una chiesetta moderna. Sulla sinistra, arretrato, il mausoleo. Dal cimitero, i due fratelli furono traslati nel 1968 a questo monumento funebre di sapore sovietico, cemento e marmo grigio, tre pilastri poco svettanti.

La devozione ciclistica continua a lasciare messaggi, fiori, candele, targhe, sciarpe, cappelli… «Quando, più di vent’anni fa, ci siamo entrati, cadeva a pezzi, abbandonata, dimenticata».

La casa di Coppi – foto di Enrico Carpegna

 

Si deve a Massimo Merlano, presidente dell’Associazione turistica Terre di Coppi, il recupero di casa Coppi, compresi i mobili, gli oggetti, le fotografie, le suppellettili originali. Definirla museo sarebbe privarla di quella piacevole malinconia che la impregna: la cucina con il tavolo davanti al camino, la sala da pranzo delle grandi occasioni con il televisore, dono del figlio ormai ricco e famoso; lo spazio angusto tra un muro e la scala interna, che il ragazzino magro sfruttava per allenarsi in inverno, mettendo la bicicletta su un sostegno di sua invenzione; la stanza di Serse, uguale ad allora in tutti i dettagli; la stanza dei genitori e quella di Fausto.

Via Paolo da Novi 21, Novi Ligure. Tra il 1933 e il 1938, lo rammenta una targa apposta di recente, Fausto lavorò come garzone presso la macelleria di Domenico Merlano. Armato di una due ruote assai precaria, oggi al Museo della Bicicletta di Alessandria, il ragazzino magro divorava ogni giorno i quaranta chilometri di saliscendi da Castellania a Novi e viceversa.

I soldi li metteva da parte per comprare una Maino da corsa, 520 lire; i quaranta chilometri quotidiani alimentavano la speranza di diventare più di Girardengo.

La bicicletta gliela regala lo zio Fausto, capitano di lungo corso, a patto che smetta di andare a bottega. Ma lui, pur di continuare a correre in mezzo ai Colli e sulle provinciali che portano a Costa Vescovato, Avolasca, Garbagna, il patto non lo rispetterà.

Da Merlano si licenzia nell’aprile del 1938, spinto da Biagio Cavanna, cui si era presentato qualche mese prima.

Cavanna, il cieco dalle mani e dall’intuito d’oro, viene al mondo a Novi Ligure nel 1893, e nel 1961, sempre a Novi, lo saluta. Ciclista di scarso pregio, abbandona presto la professione per salire sul ring, con esiti altrettanto scarsi.

Nell’ambiente, però, conosce Eugenio Pillotta, ex pugile, pioniere del massaggio sportivo. Biagio, mani robuste e sensibili, si impadronisce in fretta del mestiere. Divenuto massaggiatore di Girardengo, lo segue nelle gare, affinando il talento di capire i corridori anche sotto il profilo psicologico e caratteriale.

Il Giro d’Italia del 1926 segna il suo ingresso nel mondo del ciclismo. Scrive Carlo Delfino, medico e organizzatore di varie tappe liguri del Giro «… è amico di tutti e di nessuno, ha un potere occulto… è a conoscenza di fatti e misfatti che devono rimanere segreti e sa approfittare di questa sua posizione di vantaggio».

La cecità lo colpisce nel 1935, legata in parte ai troppi eccessi. Sembra la fine, e invece Cavanna non si arrende. Forte del suo enorme bagaglio professionale, raduna attorno a sé giovani ciclisti, da formare seguendo una disciplina sportiva e di vita durissima.

La stessa formula l’applicherà quando, è il 1943, convincerà i titolari della SIOF, Società Italiana Ossidi di Ferro, di Pozzollo Formigaro, a sponsorizzare una squadra in cui cresceranno i gregari di Coppi: Sandrino Carrea, Riccardo Filippi, Franco Giacchero, Michele Gismondi, Ettore Milano.

Di quel ragazzino magro che è venuto da lui, ascolta stupito i cinquanta battiti cardiaci al minuto; le sue mani esplorano un corpo che sembra nato per la bicicletta.

Cavanna sarà l’artefice delle fortune di Fausto, e di quelle fortune saprà ampiamente approfittare.

Alla morte di Coppi, Gianni Rossi aveva tredici anni, pochi ma sufficienti a trasformarlo in un inossidabile tifoso. Il suo ristorante di Castellania lo ha battezzato Il Grande Airone, soprannome dato a Coppi dal giornalista Orio Vergani. Un bicchiere di Timorasso, bianco delle Vigne Marina Coppi, sprigiona profumi e ricordi: «Ho conosciuto Fausto perché mia madre era la fiorista di Tortona. Capitava che telefonasse la sera tardi ‘Signora, ho dimenticato di mandare dei fiori alla moglie del tal dei tali’, mia madre li preparava e io li portavo in bicicletta. I fiori che non avrei mai voluto portare furono quelli del funerale. Non so quante volte caricammo con mio padre il furgone e quanti viaggi abbiamo fatto sotto la neve, fin su a Castellania».

Cosa legava Coppi a Tortona? «Era la città delle sue amicizie più care. Cito ad esempio Luigi Vallini, impiegato dell’Agenzia delle Entrate, cui aveva affidato il compito di rispondere alle centinaia di lettere che arrivavano; Giovannino Chiesa, il valet, una sorta di assistente infaticabile, sempre al suo fianco».

Il due gennaio 1960, Coppi muore all’ospedale di Tortona per una forma di malaria contratta a dicembre durante un criterium in Burkina Faso.

Le tante dicerie e notizie false circolate negli anni, lo accompagnano anche sul letto di morte: diagnosi errate, medici incompetenti, telefonate inascoltate… Se Fausto avesse potuto rispondere, forse lo avrebbe fatto con quel sorriso tutto suo. Timido, cortese, un po’da ragazzino.