Al LIFF (evento/kit cinematografico con sede e calendario squisitamente decisi su base individuale e volontaria di chi ha pazienza di leggere qui) irrompe fulminea la new wave permanente di Koreyoshi Kurahara (1927-2002), cineasta nipponico dalle assortite declinazioni di genere, che soprattutto durante i Sixties presso gli studi Nikkatsu rivelò un dinamismo jazz-radicale tutto da (ri)scoprire. In «Nikui an-chikusho» (I hate but love titolo internazionale, 1962) la deformazione romantica anti-clichés mette a fuoco le vicende di una celebrità della TV (la star giapponese di allora Yujiro Ishihara) che – schiacciata dal peso del successo – mette in atto un autentico detour esistenziale approfittando di un improvviso impulso «umanista» salendo a bordo di una jeep da restituire indietro necessaria al servizio sanitario di una piccola comunità del Kyushu, appena 900 miglia piùva sud di Tokyo. Dall’altra parte dell’oceano quasi un Billy Wilder con Jack Lemmon, col brio della commedia del quotidiano destinata a sfociare in una iperbole dei sentimenti che Douglas Sirk avrebbe ammirato: presente in un conturbante cofanetto Criterion (seriebEclipse) dedicato al regista.

Pochi anni prima che Maurice Pialat la faccia finita col giudizio sul polar grazie aldefinitivo «Police» (1985) il disinvolto Alain Delon passa dietro la macchina da presa perv«Pour la peau d’un flic» (Per la pelle di un poliziotto, 1981), da Jean-Patrick Manchette: l’expoliziotto Choucas (Delon, ovviamente) è incaricato da una anziana signora di ritrovarle la figlia cieca scomparsa, poco prima di essere assassinata, vittima di un affare più grande e difficile da essere denudato, tra alte sfere della polizia e trafficanti insospettabili… Aiutato da una segretaria che cita Hawks e Cukor (una freschissima Anne Parillaud) e un vecchio socio in pensione, Choucas pagherà cara in termini di infortunio la soluzione del caso, non prima però di aver incrociato per un breve momento la stella dell’hard Brigitte Lahaie (quiun’infermiera) e di aver dato l’ennesima stoccata al suo antagonista di sempre Belmondo durante un’improvvisa parentesi di meta-cinema: adesso su Amazon Prime Video.

Da «Una spia nella casa dell’amore» di Anaïs Nin ai britannici del pop «House of Love», fino a «La casa dell’amore» di Luca Ferri (presentato a Berlino 2020): l’itinerario mentale dellaseduzione è qui fisicizzato nei pochi metri quadrati di una abitazione priva di corrente elettrica da parte di Bianca, transessuale quarantenne che accetta placidamente la mercificazione del (proprio) sesso senza redenzione o senso di colpa. Anche quando la clientela si discosta inaspettatamente dalle prevedibili tipologie dell’insospettabile in calze a rete e baby-doll o del masochista del solletico: di fronte alle alte farneticazioni di un cinefago che azzarda confronti tra Renée Falconetti e Lilli Carati e sopratutto la sottopone a una ritualità estrema tanto da trasformarla in altare/tavolino da eucaristia/pasto, Bianca non oppone più che una imperturbabile perplessità, mentre l’enigmatico sembiante (una sorta di osmosi tra Genesis P-Orridge e il Kurt Raab della Tenerezza del lupo) racchiude piuttosto un ritratto umano impermeabile alla mistificazione.