Da qualche tempo in Italia (ed era tempo), anche per merito di esperti di fotografia (e di cinema) come Marcello Walter Bruno, alcuni studi indagano sul cuore segreto del cinema, identificandolo nella fotografia. In che senso? Nel senso che la fotografia, e specialmente la sequenza fotografica, come antenata del cinema, è già capace di assumere le istanze del movimento e quindi la possibilità di raccontare storie. Non tutti i registi, certo, hanno una formazione fotografica – dove c’è, peraltro, essa non solo è riconoscibile, ma è fondamentale tenerne conto per una comprensione completa del loro cinema.

Tra questi registi-fotografi, occupa un posto privilegiato Stanley Kubrick, sul cui debito riguardo alla fotografia insiste ora giustamente un libro di Caterina Martino, edito da Mimesis: Look Over Look. Il cuore fotografico del cinema di Stanley Kubrick, con la prefazione di Gabriele D’Autilia.

All’origine, come spesso accade, un regalo. Il padre regala a Stanley una macchina fotografica. Stanley si appassiona al suo uso, e comincia a girare per New York, scattando fotografie. Cerca di documentare il modo di vita della gente più umile, con evidente preferenza per gli emarginati e per gli emigrati, dal cui mondo la sua stessa famiglia (di origini ebraiche) proveniva. Scrive la Martino: «Il percorso formativo di Kubrick potrebbe avere una data d’avvio molto precisa: il 26 luglio 1940 quando, nel giorno del suo dodicesimo compleanno, il padre Jack, fotoamatore, gli regala una macchina fotografica Graflex Speed Graphic, la iconica apparecchiatura professionale utilizzata dall’American Press».

Poi Kubrick sceglie di intraprendere la carriera cinematografica, ma non rinnega certo il suo amore per la fotografia: «La scelta di Stanley Kubrick di intraprendere nel 1950 la carriera cinematografica non coincide con la scelta di abbandonare l’interesse per la fotografia, la macchina fotografica o la visione maturata nel mondo del fotogiornalismo negli anni del cosiddetto neorealismo americano in cui La città nuda di Dassin fa eco alla città aperta di Rossellini. Come artista che lavora con le immagini tecniche Kubrick preserva una doppia natura che lo rende emblema del rapporto di filiazione, ontologico, filosofico, artistico esistente tra fotografia e cinema e di tutte le implicazioni teoriche che ne derivano».

Il legame con gli altri fotografi della Scuola di New York è fortissimo: «Strade affollate da bambini, uomini e donne appartenenti a minoranze etniche; miseria e senso di comunità; quartieri popolari e degradati; poveri, immigrati, disoccupati; mestieri di strada; lotte sindacali; la condizione della donna. Questo è il ritratto di New York lasciato dalla Photo League, associazione fondata nel 1936 da Sid Grossman (1913-1955) e Sol Libsohn (1914-2001) che riunisce fotoamatori e fotografi professionisti. Tra di loro: Paul Strand, Berenice Abbott, Lou Bernstein, Lewis Hine, Lisette Model, Walter Rosenblum, Arthur Rothstein, Aaron Siskind, W. Eugene Smith, Weegee».

Può una fotografia raccontare una storia o questa è una prerogativa esclusiva dell’immagine in movimento? Certamente può farlo: «Può farlo, lo dimostrano molti casi nella storia della fotografia , da scatti singoli a sequenze: ad esempio, le messe in scena pittorialiste di Julia Margaret Cameron, la Madre Migrante di Dorothea Lange, i photo essay del fotogiornalismo, gli istanti decisivi di Henri CartierBresson, la Narrative Art di Duane Michals, i fotogrammi contemporanei di Gregory Crewdson».

Il legame tra fotografia e cinema passa naturalmente per il documentario. Nel caso di Kubrick, basta pensare a Day of Fight (1950). Kubrick segue la giornata d’un pugile, alla vigilia di un incontro importante. Poi segue l’incontro stesso, con la macchina da presa che sale sul ring, e monta il tutto con le facce e i comportamenti di spettatori e scommettitori. Ma il rapporto continua. Non si capirebbe Orizzonti di gloria, senza pensare alla fotografia di guerra. Non si capirebbe 2001. Odissea nello spazio, senza considerare HAL, il computer ribelle, come metafora della pericolosità insita nell’eccesso di sguardo. Pensiamo alle foto di Shining, capaci di incorporare anche chi le guarda. Pensiamo al personaggio del fotografo in Full Metal Jacket. Pensiamo alle maschere di Eyes Wide Shut, alla stessa possibilità di far mentire le immagini: «Il cuore fotografico del cinema di Kubrick è la regia di una sequenza di immagini che include la possibilità di costruire e far mentire l’immagine. La regia non è tipica del cinema ma appartiene già alla fotografia, come del resto anche le storie».

Chiudiamo con una precisazione che, a scanso di equivoci, ci sembra opportuna: guai a pensare che un bel film sia semplicemente un seguito di «bei fotogrammi». La bellezza è sempre oltre se stessa – ma questo Caterina Martino lo sa benissimo.