«Esaminare la realtà fino a impazzire», questo potrebbe essere il motto di László Krasznahorkai, ammesso che un’opera così complessa come la sua possa essere posta sotto una unica divisa. Instancabile artefice di frasi-fiume che sono state giustamente paragonate dal suo traduttore inglese, George Szirtes, a «colate di lava verbale», lo scrittore ungherese nato a Gyula nel 1954 dispiega nei suoi romanzi una esasperata attitudine analitica che lo porta alla disintegrazione di ciò che percepiamo come reale. Un annichilimento che avviene, paradossalmente, per accumulo, tramite l’aggregazione progressiva di enunciati che, animati da una sorta di furore decostruttivo, contestano, stravolgono o comunque inficiano il senso delle affermazioni precedenti, lasciando al lettore ben poche certezze.

Per Krasznahorkai non esistono punti fermi: questa constatazione va intesa anzitutto letteralmente – poiché lo scrittore sembra rimandare all’infinito il momento in cui un segno di interpunzione interviene ad arrestare temporaneamente il flusso delle sue elucubrazioni – ma anche in senso traslato, perché per lui non ci sono angolature privilegiate da cui osservare la realtà. Come nella teoria atomistica di Democrito – filosofo particolarmente caro a Krasznahorkai – in quell’infinito vuoto che noi chiamiamo mondo non c’è «né alto né basso, né centro, né ultimo, né estremo». Proprio per questo ogni formulazione verbale non può che essere provvisoria e parziale e dev’essere necessariamente riletta, chiosata, integrata, a volte anche trasformata nel suo esatto contrario, se non vogliamo che il nostro discorso sia costituito da falsi autoconvincimenti.

Illusorie, in quanto basate su giudizi infondati, sono per l’appunto le credenze che Krasznahorkai assegna ai suoi protagonisti al solo scopo di irriderle, svelandone la vacuità. Non a caso, i suoi romanzi – dalla sulfurea opera prima Satantango al più recente Il ritorno del barone Wenckheim, scritto nel 2016 – sono spesso orchestrati intorno a una situazione ricorrente: l’attesa spasmodica, pressoché messianica, dell’arrivo di uno o più personaggi cui la vox populi attribuisce poteri salvifici. Ma, come quei miraggi che si profilano talvolta sull’orizzonte monotono dell’Alföld, la pianura centrale ungherese, anche le speranze in un rinnovamento sono destinate a dissolversi, e la situazione torna al punto di partenza, come in una danza o in un loop.

All’estremo opposto delle false certezze di cui ama circondarsi l’essere umano si situa la presenza indubitabile, ancorché misteriosa, della bellezza nel mondo. È attorno a queste inspiegabili epifanie che ruota l’ultima opera di Krasznahorkai pubblicata da Bompiani, la raccolta di racconti datata 2008 Seiobo è discesa quaggiù (traduzione di Dóra Várnai, pp. 516, € 25,00), su cui è centrata la nostra conversazione avvenuta a Roma, poco prima che l’autore ungherese intervenisse al festival Libri come.

Partiamo dal titolo: Seiobo è la dea cinese della bellezza e la sua «discesa» sulla Terra farebbe pensare a un’origine trascendente dell’espressione artistica, oggetto privilegiato dell’esperienza estetica. L’indicibilità di questo incontro sembra in aperta contraddizione con la propensione analitica che caratterizza i suoi testi. Come si fa allora a scrivere della bellezza?
In origine Seiobo nel buddhismo mahayana è una bodhisattva: pur avendo raggiunto l’illuminazione e esaurito il ciclo delle sue esistenze terrene decide di rinunciare al nirvana e di proseguire a incarnarsi per aiutare gli esseri umani a raggiungerlo. Ma la discesa di Seiobo quaggiù sfugge alla nostra comprensione; l’esperienza estetica è sempre un’esperienza del limite, un limite che non possiamo e non dobbiamo oltrepassare, altrimenti cominceremmo a credere che la bellezza assoluta sia fatta per noi, che sia alla nostra portata visto che, apparentemente, siamo in grado di percepirla. Un’illusione che trovo pericolosissima. L’aspetto tecnico della creazione artistica – quali pigmenti vadano usati per ottenere una determinata sfumatura, quale legno si presti meglio alla realizzazione di una maschera del teatro Noh – questo sì che è alla nostra portata, se non di tutti, almeno di alcuni di noi.

Nei suoi romanzi lei polemizza con la visione del tempo lineare dominante in Occidente; in «Satantango» per esempio si parla di «satanica finzione di un percorso rettilineo che contrabbanda l’assurdo per necessità». La dimensione temporale entro cui agiscono i suoi personaggi somiglia piuttosto a un vortice dove non c’è evoluzione né scampo, e tutto è destinato a tornare in eterno. In «Seiobo» però la disposizione dei racconti secondo la sequenza dei numeri di Fibonacci pare suggerire una progressione lineare, il che contrasta con le forme chiuse e i tempi ciclici cui ci aveva abituato…
Non penso che Fibonacci qui significhi una linea retta, quel che conta in questa sequenza sono piuttosto i «salti», questo procedere a zig zag fra numeri che, se sommati fra loro, danno per risultato quello successivo. Il punto di vista da cui scrivo è sempre quello della meccanica quantistica: nella realtà non esiste continuità, è un po’ come al cinema, dove il nostro occhio registra un movimento continuo, una linearità che, a conti fatti, è soltanto illusoria. Cominciando a scrivere Seiobo mi sono reso conto come la «somma» di alcuni motivi presenti in ogni coppia di racconti portasse fatalmente a quello successivo. Come se tra i testi esistesse un rapporto di causa ed effetto. Nella loro stesura avevo seguito, del tutto inconsciamente, la sequenza di Fibonacci, che affascinava anche uno dei miei artisti prediletti, Mario Merz. Per me questa struttura è assolutamente chiara, non so se lo sia anche agli occhi del lettore…

In alcuni casi sì, altrove colpiscono rimandi anche fra racconti non necessariamente contigui…
Sì, per me era importante che questi testi entrassero in risonanza tra di loro attraverso una variazione, a volte anche soltanto impercettibile, di temi fissi. Questo libro è come uno sciame, una miriade di dettagli, di immagini, di frammenti visivi che mi incantano e che ruotano intorno a un interrogativo comune: che cos’è la bellezza, perché ci ossessiona.

I suoi romanzi esibiscono strutture complesse: i capitoli concatenati di «Melancolia della resistenza», il cerchio di «Satantango». Cosa c’è dietro questa voluta artificiosità?
Non saprei, sono le storie, i personaggi che racconto a voler essere scritti in questo modo, e non altrimenti. Io mi considero semplicemente uno scrivano, non immagino niente, queste storie per me esistevano già altrove e a un certo punto «arrivano» da me, perché vogliono entrare anche nella nostra realtà. Per cui io mi li limito a prender nota. E nel momento in cui le annoto sono già nell’unica forma possibile in cui possono esistere.

All’inizio del racconto numero 13 lei fa parlare in prima persona il protagonista, il maestro del teatro No Inoue Kazuyuki. È un caso pressoché unico nella sua opera, dove è sempre il narratore a farsi mediatore e interprete dei pensieri e delle parole dei personaggi. Come mai questa eccezione?
In realtà qui non è Inoue a parlare, bensì la dea Seiobo attraverso di lui. L’attore è soltanto la «porta» che consente alla divinità di entrare nel mondo e di manifestarsi. E Seiobo, in quanto dea, non può che esprimersi in prima persona… Capisco che il lettore abbia l’impressione di assistere a una sorta di monologo recitato dall’attore, ma ciò dipende dall’ambiguità del teatro No, che teatro lo è soltanto per approssimazione. Il No è piuttosto una specie di rituale, la cui linea narrativa è sempre la stessa: la bellezza terrena su cui è incentrata la prima parte della rappresentazione diventa bellezza trascendente nella seconda.

A proposito di quell’incarnazione terrena della bellezza che è l’arte, al centro di questi racconti tornano spesso opere pittoriche dall’attribuzione incerta o contestata. Immagino che questa insistenza sulla labilità della figura dell’autore non sia casuale.
Noi non sappiamo, e non sapremo mai, da dove venga la bellezza, per questo le diatribe degli storici dell’arte che si accapigliano per anni su una attribuzione appaiono francamente ridicole. Più che sul mistero della creazione della bellezza – che resta indicibile e inaccessibile, appannaggio di pochi genî – il mio libro si concentra su aspetti che di solito vengono ritenuti ancillari, come per esempio la conservazione e il restauro. Per me il restauratore è un autentico eroe, e il problema di come si possa preservare nel tempo la bellezza mi ha sempre affascinato, anche nei suoi risvolti più tecnici e pratici. Se vuole, anche qui c’è un elemento di ciclicità: grazie al restauro, noi torniamo a vedere quello che altri vedevano prima di noi. Solo noi non potremo mai vedere quello che vede un Buddha, o la Venere di Milo, o una Madonna del Perugino…

Al contempo sembra quasi che il visitatore protagonista del quinto racconto – forse uno dei più belli – voglia essere visto dal Cristo morto esposto nella Scuola Grande di San Rocco e che questo suo desiderio «spinga» il volto dipinto ad aprire gli occhi…
Non ci avevo pensato, forse perché a Venezia ho visto davvero il Cristo morto sbattere le palpebre! Se lo si fissa a lungo e attentamente, l’effetto ottico è più che evidente. Ma come si sente una dea come la Venere di Milo a essere guardata distrattamente, di sfuggita, magari inquadrata da uno smartphone? È chiaro che è diventata ormai una divinità orfana, che ha perduto per sempre il mondo superiore da cui proveniva.

Restando in tema di mondi, lei sembra provare una fascinazione incondizionata per l’Estremo Oriente. In altre occasioni ha ricordato le discussioni sul buddhismo con Allen Ginsberg a New York, eppure la sue conoscenze in fatto di filosofie e culture orientali farebbero ipotizzare una frequentazione diretta e molto più approfondita di questi paesi.
A dir la verità, il mio incontro con l’Oriente è avvenuto in modo del tutto casuale: era il 1990, avevo ricevuto da poco il permesso di viaggiare all’estero, e un poeta, mio ex compagno di università, mi chiese se avessi voglia di raggiungerlo a Ulan Bator a un convegno su Genghis Khan. Quindi, così come i mongoli avevano invaso l’Ungheria nel 1241, anch’io invasi la Mongolia. E, una volta arrivato fin lì, decisi di non fermarmi; Budapest era incomparabilmente più lontana di Pechino, perché tornare indietro? Il Giappone invece lo scoprii poco più tardi, grazie a un altro amico che, essendosi trasferito in loco, si «vendicava» della gestione burocratica estremamente farraginosa della sua borsa di studio tenendomi al telefono per ore e ore dal suo ufficio, ovviamente a spese dello stato nipponico. Io lo interrogavo su dettagli di ogni genere: cosa vedeva dalla finestra, com’era vestita la gente che aveva incontrato uscendo di casa, e così via, come se dovessi scrivere un romanzo. Finché il mio amico, esasperato, non mi disse: be’, è ora che tu venga qui e veda tutto con i tuoi occhi.