Fin dalla loro nascita all’inizio dell’Ottocento, la fotografia e l’archeologia hanno avuto un obiettivo comune, congelare il tempo: l’una catturando tempo e spazio in un’immagine, l’altra recuperando le tracce materiali del passato. Le foto di rovine classiche divennero presto moneta corrente nell’economia visiva della media borghesia emergente. A distanza di due secoli, la diffusione della fotografia a livello popolare ha causato un processo di estraniamento tra oggetto riprodotto e osservatore: i resti archeologici sono ridotti a icona trivializzata di un passato incompreso.
In Camera chiara, Roland Barthes ha scritto che le società del passato hanno fatto in modo che la memoria fosse eternata attraverso il monumento. Ma facendo della fotografia il testimone di «ciò che è stato», la società moderna ha rinunciato al monumento. Oggi il visitatore medio di un museo o di un monumento archeologico ha smesso perfino di guardare: la macchina fotografica o la cinepresa si muovono distaccati dall’occhio e inquadrano gli oggetti in una loro dimensione astratta, rendendoli feticci di un passato ignorato e indecifrabile. Le rovine o i manufatti artistici sono un pretesto per immagini fotografiche in cui, a distanza di anni, sembreranno oggetti estranei entrati per caso nell’inquadratura, dato che si è perduta la memoria di ciò che erano.
Contemporaneamente, però, il «paesaggio con rovine» è tornato al centro dell’opera di alcuni fotografi, principe fra essi Josef Koudelka: da circa trent’anni il fotografo di origine ceca lavora a un progetto, Vestiges, che consiste nell’esplorazione dei più importanti siti archeologici del Mediterraneo, il cui risultato si può apprezzare in una selezione di circa cento opere esposte adesso nella mostra Joseph Koudelka Radici. Evidenza della storia, enigma della bellezza, visibile a Roma, museo dell’Ara Pacis, fino al 16 maggio.
Koudelka è uno dei più grandi fotografi a livello mondiale: l’anno cruciale nella sua biografia fu il 1968, quando documentò l’occupazione sovietica di Praga, inviando clandestinamente all’estero gli scatti, poi distribuiti dalla prestigiosa agenzia Magnum. Lasciata la Cecoslovacchia nel 1970, entrò proprio alla Magnum nel 1971, inanellando successi con celebri affreschi fotografici: Gitans, 1978; Exils, 1988; Animaux, 1990. A partire dagli anni ottanta, abbandonata la Leica, si serve di una macchina per fotografie panoramiche, come quelle di Teatro del tempo (2003), un tributo ai resti della Roma imperiale.
La mostra dell’Ara Pacis include alcune di queste opere: Foro Romano, Terme di Nettuno di Ostia, Parco degli acquedotti e Via Appia. Ritrarre Roma è difficilissimo, e ritrarla come unità, ha scritto Alfonso Berardinelli, è impossibile. Quella totalità c’è e non c’è; rimane una pluralità che non trova un ordine e sfugge alla coscienza. Koudelka fissa la Roma antica con la consueta perfezione formale: non c’è traccia umana, perché – spiega – le persone lo avrebbero distolto dalla sua adesione intima alla città. La Roma che scorre sotto i nostri occhi è atemporale, riflesso di un mito moderno. Koudelka fa a meno degli esseri viventi, perché essi sono di passaggio, attraversano la storia senza lasciare tracce percepibili. Dunque, spazi abitati da esseri inanimati: statue, che sembrano fantasmi di una gloriosa epoca passata, cani solitari, e su tutto si proiettano ombre lunghissime.
Il peregrinare di Koudelka attraverso i siti archeologici del Mediterraneo lo ha portato in Siria, Grecia, Turchia, Libano, Cipro (Nord e Sud), Israele, Giordania, Egitto, Libia, Tunisia, Algeria, Marocco, Portogallo, Spagna, Francia, Albania, Croazia; lo scopo è documentare la memoria della nostra civiltà, la cui distruzione in certi paesi (Siria, Libia, Medio Oriente) può essere imminente, se non sia già avvenuta. La selezione nell’Ara Pacis è stratificata nel tempo (dagli anni novanta al 2019) e alterna fotografie dal formato maestoso (in parete) a altre di formato ridotto (su panchette). I siti della Turchia – Efeso, Afrodisia, Sagalassos, Mileto – sono tra i più rappresentati, mentre la Grecia è magnificamente fissata, tra l’altro dalla colonna dell’Olympieion di Atene: colossale, impnente, come un gigante caduto fiero e allo stesso tempo fragile. La colonna contiene in sé l’ambiguità del passato: la potenza di quando sorreggeva il tempio e la fragilità dei suoi rocchi smembrati, frammenti che testimoniano una perduta totalità di cui, però, garantiscono anche la perpetuazione nella memoria. Koudelka si avvicina con l’obbiettivo, coglie i dettagli delle scanalature, le venature del marmo, ma poi l’occhio si allontana sulla fuga dei rocchi allineati e, oltre la natura, esemplificata dalla forma nobile e verticale del cipresso, chiude la sua traiettoria su un’antenna parabolica in cima a una banale architettura di cemento. Il paesaggio di rovine diventa perciò paesaggio rovinato.
La fotografia per Koudelka non è solo documento, esprime un impegno etico, sostenuto da una perfezione formale che allo stesso tempo cattura, affascina e soggioga (il maestoso Pont du Gard riflesso nell’acqua del Gardon): quando ce ne si rende conto, siamo già all’interno di un incantesimo, e a questo punto non c’è via di scampo, dobbiamo per forza riflettere su quel che vediamo e sul luogo in cui il fotografo ci ha portati. «Sono costantemente alla ricerca della perfezione», dice Koudelka, «trascorro il mio tempo a guardare le mie fotografie per vedere come posso migliorarle quanto ritorno sul luogo».
Con Vestiges egli non crea immagini che attendono di essere guardate, sono piuttosto loro a guardare noi e ci creano imbarazzo, con una presenza ingombrante, un senso pesante della storia, un inquietante ricordarci morte, distruzione e rovina ma anche la memoria di un’epoca gloriosa: è il caso della gigantesca mano marmorea di una statua di fronte al tempio di Ercole ad Amman, mano che sembra aggrapparsi pervicacemente al terreno per resistere alla distruzione.
Non sono paesaggi di rovine come quelli rinascimentali o quelli, pervasi da sospensione temporale, di Poussin. Koudelka qui ci schiude decine di luoghi come perenni teatri della memoria per renderci consapevoli di questo passato e vigili di fronte alla storia. Il patrimonio monumentale della tradizione non è quindi il soggetto di una cartolina da contemplare sospirando, né possiamo pensare di avere la coscienza pulita classificandolo, studiandolo e poi riponendolo nel cassetto degli addetti ai lavori: le immagini di Koudelka, con la loro bellezza insostenibile, ci impongono di custodirlo, conservarlo, trasmetterlo.