Quando si arriva a Kos si è quasi sempre di passaggio. La destinazione sarebbe un’altra, una qualche isola del Dodecaneso che non può essere raggiunta direttamente e allora, se non si preferisce il tragitto in nave da Atene, che può essere lunghissimo, l’aeroporto di Kos è tra i più consigliati. Nella scelta dell’itinerario si cerca di sostare sull’isola il meno possibile: si arriva tardi la notte e la mattina dopo, prima che si può, via in aliscafo verso un’altra isola. Al porto gli alberghi sono quasi tutti moderni e anonimi ritrovi di vacanzieri per lo più del nord Europa. La città sembra decisamente brutta, deturpata dalle recenti palazzine modeste e piena di insegne di negozi e locali a basso costo. Però, proprio in mezzo a quelle stradine sommerse da rivenditori di merce falsa, c’è una meta che vale il viaggio. Piazza Eleftherias è un luogo inaspettatamente quasi intatto che riporta indietro nell’Italia fra le due guerre. Il mercato, il grande palazzo pubblico e il museo archeologico che circondano e delimitano per tre quarti la piazza, sono opera di due architetti quasi sconosciuti che hanno contribuito a disegnare la maggior parte degli edifici nelle isole del Dodecaneso: Rodolfo Petracco e Armando Bernabiti.
L’architettura italiana nell’Egeo è fortemente presente soprattutto a Rodi, Kos e Leros, e si tratta quasi sempre di costruzioni di estrema eleganza e ricercatezza, caratterizzate da quello stile coloniale imbevuto di suggestioni orientaleggianti mescolate ad elementi del razionalismo tipici di quegli anni. Sebbene si tratti di esempi notevoli, gli edifici italiani nel Dodecaneso non hanno attratto grande interesse da parte degli studi e sembra quasi che vengano percepiti come un elemento di disturbo da molti turisti, che mostrano di ignorare le vicende tragiche di cui quei luoghi sono stati teatro.
Questa sensazione si avverte soprattutto a Kos, forse perché è meno «città» rispetto a Rodi, il suo porto viene usato come scalo per altre destinazioni, oppure perché è più drammatico ciò che si è cercato di dimenticare. A Mario Lago, illuminato governatore del Possedimento delle Isole italiane nell’Egeo dal 1922 al 1936, tanto sensibile ai richiami della cultura classica da promuovere insieme a Alessandro Della Seta, storico direttore della Scuola Archeologica Italiana di Atene, la fondazione nel 1928 dell’Istituto Archeologico di Rodi, si deve l’avvio di quella proficua stagione creativa durante la quale vengono realizzati i principali edifici pubblici e il piano regolatore della nuova città di Rodi, ma anche di Leros e Kos dove, in particolare, gli interventi vennero resi improvvisamente necessari da un evento che sconvolse l’isola.
La mattina del 23 aprile 1933, una domenica, Kos venne devastata da un violento terremoto che distrusse gran parte del vecchio tessuto urbano. Il Governo Italiano delle Isole istituì uno speciale Commissariato per gestire la situazione di emergenza, e il nuovo piano regolatore fu affidato a Rodolfo Petracco. Dietro l’opera di quest’ultimo è però facile intravvedere l’influenza di Lago e soprattutto di Della Seta. Si cercò infatti di individuare le zone di maggiore interesse archeologico che avrebbero caratterizzato delle specifiche aree in dialogo con la parte urbanistica in costruzione, seguendo il modello delle «città giardino» di quegli anni. L’interesse archeologico fu preminente per impostare il disegno di una città ariosa, con quartieri di case a uno o due piani articolati intorno ad ampie zone verdi o alle stesse aree archeologiche dove i monumenti erano intanto in corso di restauro.
Petracco e Bernabiti furono gli interpreti principali di quell’ambizioso progetto, ma all’epoca non avevano nemmeno il titolo di architetto, che ottennero quando già erano al servizio della Direzione dei Lavori Pubblici. Subentrarono infatti nei favori di Lago a Florestano Di Fausto, al quale il governatore, pur riconoscendone la genialità mostrata negli edifici sino ad allora più rappresentativi di Rodi e del Dodecaneso, non seppe perdonare alcune divergenze caratteriali. Di Fausto, prima del terremoto del ’33, aveva già portato a termine varie opere a Kos in uno «spensierato eclettismo islamizzante», ma quelle realizzate sulla piazza centrale dai suoi giovani successori rappresentano, nel giro di pochi metri, una sorta di vero e proprio laboratorio di sperimentazione dell’architettura coloniale italiana nelle isole dell’Egeo.
Il mercato disegnato da Petracco, inaugurato nel 1935 e tuttora in funzione, è caratterizzato da una facciata costituita da bassi portici ad archi che appoggiano su colonne mozze: richiama inevitabilmente i caravanserragli del Levante, e si oppone, sul lato antistante alla piazza, al severo disegno del museo archeologico dello stesso Petracco, ma successivo di pochi anni. Anni però decisivi per il cambiamento dello stile, perché videro il succedersi di Cesare De Vecchi a Lago nella carica di governatore. L’ex quadrumviro impose uno stile più aderente ai modelli fascisti (anche nei rapporti con la popolazione), al quale l’architetto si adeguò creando un edificio che richiama, con un accento fortemente razionalista, il disegno di un fortilizio, alleggerito però da due eleganti finestre a bovindo nella parte alta.
Sul lato lungo della piazza, Bernabiti, più estroso del collega, realizzò, a cavallo fra il ’34 e il ’36, il palazzo pubblico, che riuniva in sé la casa del fascio, un cinema e un dopo-lavoro. L’edificio, caratterizzato da un vistoso torrione angolare, risente del cambio di stile avvenuto nel corso della sua realizzazione a causa del passaggio di potere da Lago a De Vecchi, e unisce elementi leggeri alla volontà di creare un’opera «moderna» in sintonia con i dettami del regime. La ricercatezza degli interni emerge anche in una bellissima abitazione privata sul lungomare, verso la fine del porto, progettata ancora da Bernabiti nel 1935 per un medico italiano che arrivò sull’isola scampando al disastro di Smirne del 1922. È ormai abbandonata, ma è facile scavalcare e apprezzare la raffinata boiserie dei saloni, che segue le linee curve del disegno della facciata, impostato su un elegante gioco di concavità e convessità ellittiche e semicircolari.
Di rilievo è anche l’Albergo il Gelsomino, inaugurato il 10 aprile 1929 tra il mare e i nuovi giardini, la cui rigida simmetria e il predominio della linea secca richiamano una generica fisionomia déco. Realizzato da Petracco, che ne disegnò anche i mobili delle stanze, è pieno di riferimenti decorativi ispirati al medioevo veneziano, segnatamente nelle merlature, e all’architettura cavalleresca, in particolare nella parte bassa, che anticipa di qualche anno il disegno del mercato sulla piazza. Nella biografia di Petracco e Bernabiti la parentesi dell’Egeo rappresenta un’eccezionale stagione creativa. Una volta rientrati in Italia ricadranno nell’anonimato.
Ma è la memoria di un evento tragico che ha avuto Kos come teatro all’indomani dell’8 settembre 1943 a essere stata per troppo tempo colpevolmente dimenticata. Il 3 ottobre di quell’anno le truppe tedesche del generale Müller sbarcarono sull’isola, che era occupata da 4.000 soldati italiani e 1.500 inglesi. La battaglia durò tre giorni. Kos, come nei casi più noti di Porta San Paolo e Cefalonia, rappresentò uno dei primi episodi di resistenza militare ai tedeschi e di collaborazione fra italiani e Alleati.
Dopo aver conquistato l’isola, la rappresaglia dei tedeschi fu feroce. Quasi cento ufficiali italiani vennero fucilati e gettati in fosse comuni. Di tale atrocità si avrà notizia, parziale e incompleta, solo alla fine della guerra. In seguito la strage verrà sepolta nel cosiddetto «armadio della vergogna». A Isabella Insolvibile va il merito di aver scritto Kos 1943-1948. La strage, la storia, che ricostruisce mirabilmente gli eventi e il quadro storico in cui si svolsero, evidenziando l’assoluta mancanza di iniziative da parte dello Stato per assicurare alla giustizia i responsabili dell’eccidio. «La strage di Kos è stata dimenticata dalle autorità politiche del nostro paese – riporta le parole di Giorgio Rochat, che è andato a cercare il luogo dell’esecuzione senza trovarlo – perché era una zona sul mare su cui è esploso il turismo, una selva di case su quelli che erano prima dei terreni abbandonati. Sono andato a chiedere all’ufficio del turismo dell’isola se ci fosse almeno una lapide, e quelli cadevano dalle nuvole, non sapevano nulla». La lapide c’è, ma pochi ancora lo sanno.