Se amate il cinema e amate la Russia, l’autobiografia di Andrey Konchalovsky (Scomode Verità, Sandro Teti Editore, 2019) fa per voi. Nato in una famiglia di intellettuali coccolata da Stalin (al padre lo scrittore Sergey Michalkov Stalin affidò di scrivere il testo dell’inno sovietico che sostituì l’Internazionale nel 1944) il futuro regista si dimostrò ben presto refrattario ai rigidi canoni dell’arte sovietica e nel 1983 abbandonò il paese – aiutato da John Voight – e conoscerà ben presto una vasta popolarità con A trenta secondi dalla fine. Un libro che ha il pregio di essere sincero (anche se non tratta del rapporto con il fratello Nikita Michalkov), quasi disarmante. Come quando narra del rapporto difficile di odio-amore nei confronti di Andrey Tarkovsky anche lui cresciuto all’ombra del grande Michail Romm, al punto di dedicargli perfino un poscritto. Riconoscendone però il genio: «Ci saranno sempre anticonformisti come Tarkovsky e Bresson. Gli anticonformisti hanno dato molto al cinema. Ciascuno, da solo, si è gettato nell’abisso, nella speranza di comprenderne le profondità insondabili». Il cinema per Konchalovsky è Kurosawa, è Kalatozov (Quando volano le cicogne), è Buñuel, ma è soprattutto Fellini che il regista accosta a due autori classici della letteratura russa («Per me i tre grandi – Fellini e gli scrittori Nikolaij Gogol’, Andreyij Platonov – sono interconnessi. Hanno creato mondi di corpi quasi eterei, personaggi inimitabili e situazioni fantastiche»). Ma il cinema italiano non è solo il cineasta riminese: nel libro viene raccontato come con il primo milione guadagnato in America acquistò i diritti per un remake americano del film di Elio Petri, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto che purtroppo finora non ha portato sugli schermi.

La parte più suggestiva del libro è la prima, il periodo «sovietico» di formazione con la scoperta del sesso, la scoperta della macchina da presa, gli incontri segreti a Mosca con Bernardo Bertolucci. La vita negli States non lo affascina, Hollywood gli appare una gabbia. «Il cinema americano – sottolinea nel libro – potrebbe essere molto efficace dal punto di vista industriale e commerciale, ma esige un prezzo elevato in quanto solo una manciata di maestri americani – Coppola, Scorsese, Sydney Pollack, Woody Allen – sono stati capaci di preservare, in una certa misura, una libertà di espressione. Compresi di non aver altra scelta che quella di sacrificare il mio stile».

L’unico salvagente del periodo americano appare essere la relazione con Shirley MacLaine, breve ma intensa. Già in queste pagine si sente la nostalgia per la Russia, la grande madre che assale quasi tutti i russi che l’abbandonano e da cui prima o poi tornano. Come ha fatto anche Konchalovsky nei primi anni ’90, tornando a fare film completamente e intensamente russi. «Chi veniva dalla Russia comunista non poteva vivere nella democratica America senza un senso di vergogna» annota in conclusione, mestamente il regista.