Si svolge da più di un decennio a Kobe, città giapponese dove per primo sbarcò il cinematografo dei fratelli Lumière nel 1897 ed il kinetoscopio di Edison un anno prima, il Kobe Discovery Film Festival, una piccola ma interessante manifestazione che si crea il suo spazio di nicchia nel delirio festivaliero autunnale. Nato originariamente come Kobe Documentary Film Festival nel 2009, nel 2017 l’evento cambia il suo nome, la sua configurazione e la sua struttura per focalizzarsi su uno spettro più ampio, come la riscoperta di lavori dimenticati, la rivalutazione dei film amatoriali, i documentari più politicamente schierati e le opere sperimentali. Dopo la cancellazione a causa della pandemia, questo ottobre il festival è tornato a svolgersi, come sempre, in due periodi, dal 15-16 e dal 21-23 ottobre, al Planet Film Archive di Kobe, uno dei più importanti archivi cinematografici del Sol Levante, fornito anche di una piccola sala per le proiezioni.
Proprio in questo spazio sono stati presentati la scorsa settimana alcuni interessanti lavori, non solo provenienti dall’arcipelago, ma anche dal resto del mondo. Film, the Living Record of our Memory, ad esempio, è un documentario del 2021 diretto da Inés Toharia sul ruolo che archiviazione, preservazione e restauro rivestono oggi nel mondo e nella storia della settima arte, e come queste pratiche debbano affrontare diverse problematiche in paesi diversi.

Where Lights Are Low è invece un film muto del 1921 realizzato da Colin Campbell, presentato in versione restaurata, dove il personaggio principale, un principe cinese in viaggio negli Stati Uniti, è interpretato da Sessue Hayakawa, qui anche produttore, la prima vera star hollywoodiana giapponese, attiva sia in America che in patria durante la prima metà del secolo scorso.

Per quanto riguarda i lavori giapponesi, è stato presentato in anteprima nell’arcipelago Where But Into The Sea, documentario attraverso il quale il regista Mirai Osawa e lo studioso Kenji Kanno gettano luce su alcune storie di ebrei rifugiatisi in Giappone e a Shanghai, durante il periodo bellico. Due degli eventi più affascinanti ospitati ed organizzati dal Kobe Discovery Film Festival negli scorsi giorni sono stati forse due mini-retrospettive in memoriam dedicate a Teruo Koike e al collettivo NDU. Koike è stato un artista e filmmaker di cinema sperimentale, scomparso lo scorso marzo, noto agli appassionati in patria e all’estero, alcuni suoi lavori furono presentati a Rotterdam, soprattutto per il suo ciclo di cortometraggi intitolati Ecosystem, realizzati a partire dal 1981 fino alla sua morte. Alcuni di questi lavori sono stati presentati al festival, si tratta di fotografie di elementi naturali, alcune volte anche al microscopio, come pietre, creature marine, particelle di sabbia, erba, detriti, vegetazione, ma anche reti da pesca, ricomposte e filmate con un montaggio rapidissimo, quasi subliminale, che danno vita ad un debordante flusso di materialità che ricorda da vicino Brakhage, a cui Koike si è ispirato, almeno agli inizi. L’importanza di Koike per lo sviluppo della cultura filmica in Giappone va anche al di là della sua stretta produzione visiva, comunque da (ri)scoprire, per decenni il giapponese è stato infatti promotore di eventi e proiezioni, specialmente nella zona di Osaka e Kobe, che davano spazio ad artisti emergenti nella scena sperimentale dell’arcipelago.
Il programma dedicato al collettivo NDU (Nihon Documentary Union) ha presentato due documentari, finora inediti, prodotti dal gruppo, fondato sul finire degli anni sessanta da studenti che abbandonarono la prestigiosa università di Waseda. L’occasione è stata la scomparsa lo scorso giugno di Osamu Inoue, uno dei membri del collettivo fin dalla prima ora, e il decimo anniversario della morte di Tetsuro Nunokawa, una delle figure più importanti del gruppo. NDU propose fin dalla sua nascita, un’idea di cinema documentario fortemente schierato e orizzontale, tanto nell’organizzazione della struttura del gruppo, dove non esistevano particolari gerarchie, quanto nella quasi caotica struttura con cui le immagini venivano assemblate. Dalla fine degli anni sessanta prese parte e documentò le proteste studentesche che scossero il Giappone, per poi avventurarsi a Okinawa, dove catturò in immagini la vita di giovani prostitute ed il fermento politico nell’isola e le isole tra Okinawa e Taiwan, dove mise su pellicola lo sfruttamento di alcune minoranze, compreso quello delle popolazioni indigene intrappolate fra la dominazione giapponese e quella cinese post-bellica.

Il primo documentario proiettato al festival, Tokyo ‘69 aoi kureyon itsuka wa… (Tokyo ‘69 un giorno i pastelli blu…), fu girato tra il 1967 e il 1968 mostra la metropoli di Tokyo con tutti i problemi che la affliggevano, dalla forte urbanizzazione, alla mancanza di asili nido e conseguentemente l’impossibilità di trovare lavoro per le donne, dai danni fatti dalle Olimpiadi del 1964, fino al fatto che il 95 per cento del territorio fosse posseduto dal 5 per cento della popolazione. Quasi niente sembra essere cambiato in questi cinque decenni.

Il secondo lavoro, Chian shutsudo soko ohiru no kaigenrei (Progetto di ordine pubblico, legge marziale a mezzogiorno), fu filmato in occasione di un evento poco conosciuto, ma molto significativo per la capitale ed il Giappone, l’esercitazione per grandi calamità naturali avvenuta a Tokyo il primo settembre 1981. Nell’arcipelago, pratiche che addestrano la popolazione in caso di disastri naturali come terremoti e tifoni sono abbastanza comuni e portate avanti fin dal periodo scolastico, ma l’esercitazione in questione rappresentò qualcosa di diverso. Il documentario filma le protesta di un gruppo di attivisti, siamo agli inizi degli anni ottanta, la stagione delle grandi manifestazioni e proteste di massa è finita, contro una mobilitazione che ha fatto cooperare ben sei municipalità di Tokyo, con circa 12 milioni di persone coinvolte, elicotteri in continuo volo sopra i palazzi, le forze di difesa giapponesi impiegate in grande numero e perfino sbarchi di militari avvenuti nella prefettura limitrofa di Shizuoka. Quello che il collettivo NDU costruisce e denuncia attraverso le immagini, quasi ipnotiche, degli elicotteri e della marcia per le strade, accompagnate da musica elettronica, è il legame fra questo tipo di «mobilitazione totale» e il concetto di ordine pubblico e nazione. Se a prima vista l’evento non sembrerebbe niente di pericoloso, la massa di persone mossa per volere e in nome dello stato e l’impiego preoccupante di militari e forze dell’esercito, da sola dovrebbe, secondo il collettivo, destare più di qualche dubbio e preoccupazione. Con la scusa della sicurezza e di un’esercitazione in caso di disastro, si fa passare l’idea che è lo stato e la nazione a decidere dall’alto e che questo sia necessario, quando invece, specialmente per questo tipo di pratiche, l’organizzazione dovrebbe avvenire dal basso e con il consenso dei cittadini. Un’idea rizomatica dell’attività politica e sociale, decisamente contro lo stato, che ritroviamo in molti dei lavori realizzati dal gruppo, specialmente gli anni che vanno dalle fine dei sessanta agli inizi degli ottanta, due estremi che i lavori presentati al festival di Kobe ben simbolizzano.