È stata una domenica surreale a Los Angeles quella interrotta nella tarda mattinata dalla notizia del disastro che ha portato via Kobe Bryant ed ha tolto il respiro alla sua città. Metropoli dispersiva e disgiunta per antonomasia, LA supplisce alla mancanza di tessuto connettivo con i miti condivisi, nella musica, nel cinema e nello sport. Kobe ha attraversato quei mondi e pochi quanto lui hanno coeso gli Angelenos.

COME idolo sportivo forse solo Magic Johnson ha avuto lo stesso ascendente sui tifosi. E come per Magic questa era, è la città di Kobe – il fenomeno uscito dal liceo per entrare diciottenne nella NBA e rimasto (dopo un breve intermezzo nei Charlotte Hornets) per 20 anni con la maglia viola-oro della squadra di cui era stato tifoso sin da bambino. Assieme a Magic e Kareem Abdul Jabbar, Kobe ha fatto la storia moderna dei Lakers. Della generazione successiva a quei campioni, Kobe ha condiviso la sua epoca con Shaquille O’Neal – ma mentre Shaq era a arrivato da Miami e successivamente ripartito, Kobe era la definizione del hometown boy – un ragazzo locale – uno di quei campioni, sempre più rari, identificati solo e per sempre con una sola squadra e una città.

E I TIFOSI hanno ricambiato la lealtà con affetto incondizionato e non solo per i cinque campionati vinti, i due ori olimpici e due titoli MVP o le 18 selezioni alla All-Star. Ma per aver incarnato quell’identità condivisa che solo lo sport a volte sa offrire attraverso grandi campioni. In una città dove non mancano le star Kobe, carismatico, sofisticato, poliglotta ineffabilmente cool, brillava di luce propria.

Fan di Bryant accorrono allo Staples Center dopo la notizia della sua morte, foto Ap

E PER LUI a migliaia si sono riversati inizialmente verso il luogo dello schianto, sulle colline di Calabasas, una ventina di chilometri a nord della città. Quando la polizia ha dovuto chiudere l’unica via d’accesso al luogo dove i pompieri lavoravano ancora per estinguere il focolaio provocato dall’esplosione, il popolo di Kobe si è diretto in massa verso Staples Center, il palasport dove i suoi Lakers, dopo anni di crisi, stanno conducendo un campionato storico, in vetta alla divisione, guidati da Le Bron James. Le Bron che solo il giorno prima aveva superato, al terzo posto di sempre per punti, proprio Kobe Bryant. Nel piazzale antistante allo Staples, mentre le emittenti locali e nazionali passavano a dirette speciali e le partite NBA in tutto il paese osservavano minuti di silenzio, la folla è cresciuta a dismisura. Ne la scomparsa improvvisa di Prince, ne quella di Michael Jackson o i funerali di Mohammed Ali avevano suscitata o una reazione simile.

LA CITTÀ scioccata e affranta si è fermata per piangere uno dei campioni di maggiore carisma nella sua storia. Un idolo dello sport che dopo il ritiro aveva vinto nientemeno che quell’altro trofeo cittadino: un oscar per il corto Dear Basketball, nel 2018. Sport, spettacolo e dolore si sono paradossalmente mescolati allo Staple Center mentre la folla a lutto si intersecava con quella accorsa intanto per la celebrazione dei Grammy, in programma nella stessa arena. Kobe era amico di molte personalità musicali presenti, e i premi si sono trasformati in omaggio improvvisato. Dal palco, dei Grammys, la conduttrice, Alicia Keys, ha detto: «Non avrei immaginato in un milione di anni di dover cominciare così lo spettacolo. Los Angeles, l’America e il mondo ha perso un eroe e ira ci troviamo col cuore spezzato qui, nella house that Kobe built». E nella casa costruita da Kobe, il ragazzo prodigio venuto dall’Italia e da Philadelphia ma diventato un pezzo grande di LA, non poteva esserci un momento più triste, ne, in qualche modo, adatto a salutarlo.