L’industria musicale è una cosa seria. Ha le sue regole, le sue mode e le sue rivoluzioni. Ogni tanto, però, capita che questo sistema perfetto subisca un’infiltrazione. Qualcosa di completamente estraneo che, in qualche modo, riesce ad eludere le barriere e a conquistare il grande pubblico. I KLF, duo acid house britannico, corrispondono perfettamente a questa definizione. Emersi all’improvviso negli anni Ottanta, come il proverbiale fuoco di paglia si sono rapidamente dissolti nel 1992, poco dopo aver raggiunto l’apice del successo mondiale. Nel mezzo, hanno fatto di tutto per non passare inosservati: comparsate in cima alle classifiche, una denuncia da parte degli Abba, uno strano legame con l’occultismo e – a proposito di fuochi di paglia – un’insana passione per la piromania. Lo scorso giugno, trent’anni dopo il burrascoso scioglimento della band, al Festival di Glastonbury è stato presentato Who Killed the KLF?, documentario che con filmati d’archivio e interviste inedite ripercorre le tappe della loro intensa, seppur breve, carriera.
La storia dei KLF inizia nei primi anni Ottanta, in seno alla fibrillante scena post punk di Liverpool. I due fondatori, Bill Drummond e Jimmy Cauty, ne erano esponenti di punta: il primo, oltre a lavorare per un’importante major dell’epoca, era conosciuto nell’ambiente come chitarrista dei Big in Japan e come fondatore della Zoo, etichetta con cui aveva prodotto i primi singoli degli Echo & The Bunnymen; il secondo, invece, era il bassista dei Brilliant e uno dei massimi esperti di musica elettronica e strumenti digitali. I due, però, cercavano nuovi stimoli. Drummond si licenziò nel 1986 – come da lui dichiarato, «all’età di 33 anni e un terzo, come i giri al minuto di un lp» – e, con l’amico, decise di intraprendere una carriera nel mondo dell’hip hop, genere ancora lontano dai fasti attuali. Né lui né Cauty conoscevano la materia, ma erano affascinati dall’uso innovativo dei campionamenti e dalla possibilità di lanciare messaggi in maniera diretta e senza filtri. Nel 1987, fondarono i Justified Ancients of MuMu (JAMs). Il nome – così come i temi affrontati e l’iconografia della band – era un riferimento ai romanzi fantascientifici della trilogia Illuminatus!, pubblicata nel 1975, i cui protagonisti fanno parte della setta degli Illuminati, ancora oggi al centro di numerose teorie del complotto. L’opera aveva divertito Drummond fino all’ossessione: nelle sue intenzioni, impersonarne i personaggi significava applicare la teoria del caos esposta nei libri al mercato musicale, allo scopo di infiltrarlo e distruggerlo definitivamente dall’interno. Fu così che il caos divenne il valore fondante del loro progetto.

OLTRE IL PLAGIO
Musicalmente, il concetto di hip hop dei JAMs era alquanto approssimativo. Al posto di campionare brevi porzioni di brani altrui per farne qualcosa di originale, si impossessavano di lunghi frammenti di canzoni – ben oltre il limite del plagio – per stravolgerne il senso, creando storie assurde e grottesche; le parti vocali, invece, consistevano in rime declamate da Drummond con un accento scozzese volutamente esasperato. Gli incidenti diplomatici non tardarono ad arrivare: la canzone The Queen and I, dall’album di debutto, sbeffeggiava Dancing Queen degli Abba, appropriandosi spudoratamente del ritornello. L’inaspettato successo del disco scatenò l’ira del gruppo svedese, che ne pretese il ritiro denunciando il plagio. Drummond e Cauty si imbarcarono per Stoccolma portandosi appresso tutte le copie rimaste dell’album, decisi ad incontrare di persona gli Abba e a risolvere il disguido amichevolmente. Quando l’incontro gli fu negato, i due risposero dando fuoco ai vinili che avevano con sé, sostenendo che fosse un gesto «artisticamente giustificato». Dopo due album che – seppur stampati in pochissime copie e oggi introvabili – ottennero un buon successo di critica e pubblico, i JAMs erano maturi per compiere un passo avanti nella loro missione. La svolta arrivò nel 1988: manomettendo la sigla del serial Doctor Who, pubblicarono Doctorin’ the Tardis, estemporaneo divertissement dal ritmo irresistibile. Per attirare curiosità celarono la propria identità attribuendo il pezzo a una band immaginaria, i Timelords, capitanata nientemeno che da un’automobile, una vecchia Ford Galaxy della polizia. Anche grazie a questa trovata, la canzone raggiunse la vetta delle classifiche inglesi, rendendo il duo la rivelazione dell’anno.
Intanto, il post punk stava progressivamente lasciando spazio a nuove tendenze. A fine anni Ottanta, nel Regno Unito era iniziata la nuova Summer of Love: la house music e la rave culture stavano conquistando le nuove generazioni. Drummond e Cauty si riconobbero istintivamente in quell’onda creativa e iniziarono a dilettarsi con sonorità dance ispirate alla nuova musica elettronica.

LASCIARE IL SEGNO
Ribadendo la loro avversione per i diritti d’autore si ribattezzarono KLF, acronimo di Kopyright Liberation Front. È con questa sigla, e grazie alle loro prodezze situazioniste, che raggiunsero il loro scopo: lasciare un segno, ad ogni costo, nello show business mondiale. L’occultismo e i richiami fantascientifici – piramidi, animali sacrificali, alieni e lunghe tuniche da templari – continuavano a comporre l’immaginario del gruppo. I KLF si fecero subito notare con estrose comparsate nei rave di tutto il paese. Nella loro prima esibizione, gettarono sulla platea in delirio mille banconote da una sterlina – il loro cachet – sulle quali avevano scritto a mano «Children, we love you!». Dopo un primo disco ambient e sperimentale, Chill Out, produssero alcuni singoli «pure trance»: ritmi incessanti e ipnotici, perfetti per le dancefloor di quegli anni. Il 1991 fu il loro anno. A marzo, uscì The White Room, album inizialmente concepito come colonna sonora di un film mai realizzato. Per presentarlo, invitarono alcuni giornalisti ad assistere a un misterioso rito pagano, imbarcandoli prima su un aereo e poi su un traghetto per un’isola delle Ebridi. Qui, vennero scortati da uomini mascherati verso un’enorme scultura di paglia, che allo scoccare della mezzanotte venne incendiata, dando il via a un party selvaggio con le canzoni del duo in sottofondo. Grazie a tracce come 3AM Eternal e What Time Is Love?, il disco fu un successo planetario, dall’Europa agli Stati Uniti. La consacrazione arrivò ai Brit Awards del 1992, dove i KLF vinsero il premio come migliore band dell’anno. Tuttavia, dopo che gli fu impedito di sacrificare una pecora sul palco, durante l’esibizione Drummond imbracciò un mitra, sparando proiettili a salve verso il pubblico e facendosi cacciare dalla cerimonia. La sera stessa, la coppia dichiarò che avrebbe lasciato il mondo della musica, cancellando per sempre il loro intero catalogo. Il rito conclusivo dell’epopea dei KLF arrivò nel 1994, quando decisero di sbarazzarsi definitivamente dei proventi ottenuti nei loro anni da star: sull’isola scozzese di Jura, Drummond e Cauty diedero fuoco a un milione di sterline in banconote, rendendosi protagonisti di un’estrema performance di emancipazione dall’industria musicale.

La copertina di «Complotto! Caos, magia e musica house» (Nero, 2018), la biografia di John Higgs dedicata ai Klf

Arte, situazionismo o pura follia? In attesa di vedere il nuovo documentario anche in Italia, è possibile approfondire l’avventura dei KLF leggendo la biografia di John Higgs, Complotto! Caos, magia e musica house (Nero, 2018) o ascoltando la doppia antologia Solid State Logik, da poco tornata disponibile sulle piattaforme streaming, che raccoglie tutti i successi del duo più incendiario di sempre.