«Film come La grande parata, La folla, Amore sublime o Duello al sole sono diventati dei classici che hanno stimolato nuove interpretazioni e contestualizzazioni. Il loro regista, tuttavia, non è ancora lontanamente famoso quanto i suoi film». Nato in Texas nel 1894, un anno prima che al Salon indien di Parigi debuttassero i primi film dei fratelli Lumiere, King Vidor ha attraversato il cinema hollywoodiano dai suoi albori fino alla piena maturità, incrociandone i nomi e la storia che ha contribuito a scrivere insieme a quella dei generi – dal western al melodramma – che ha praticato nel corso di una carriera durata quasi 50 anni. Sembra strano dunque sostenere che il suo nome non sia entrato pienamente nel pantheon del cinema, come fanno Connie Betz, Karin Herbst-Meßlinger e Rainer Rother nell’introduzione del libro – King Vidor – che esce in occasione della retrospettiva dedicata al grande filmmaker dalla Berlinale 2020 in collaborazione con la Deutsche Kinematek. In programma, 35 dei suoi oltre 50 film: da The Sky Pilot (1921) – in versione restaurata digitalmente quest’anno – a Salomone e la regina di Saba (1959).

Eppure è vero, come sostengono gli autori, che «c’è stata una scarsa ricerca storica consistente» e complessiva su Vidor. Nonostante nei suoi film siano immortalati alcuni dei momenti più indimenticabili della storia del cinema, dall’ingresso della macchina da presa in un grattacielo di New York dove lavorano centinaia di anonimi contabili in La folla (1928) allo scontro finale degli amanti Jennifer Jones e Gregory Peck in Duello al sole (1947). E proprio nell’anno dell’uscita dell’acclamato 1917 di Sam Mendes, la rappresentazione che Vidor fa della Prima guerra mondiale nel primo film «pacifista» della storia, e che inizia in quello stesso anno – La grande parata (1925) – appare ancora oggi di gran lunga più straziante, nella sequenza dei soldati in marcia che cadono uno dopo l’altro sotto i colpi del nemico. Per Martin Scorsese, autore di un intervento nel libro, il regista texano si colloca all’origine del cinema stesso: «King Vidor ha fatto il primo film che abbia mai visto, quindi per me il cinema comincia con lui. Immaginate iniziare con Duello al sole, assorbire quelle immagini da bambini – il Technicolor febbrile, i primi piani, il movimento dinamico e implacabile dall’inizio alla fine».

La retrospettiva e la pubblicazione della Berlinale sono dunque un passo nella direzione della riscoperta e dell’approfondimento dei lavori di Vidor, di un regista guidato dall’instancabile desiderio di raccontare attraverso la pellicola i volti degli attori, il ritmo (alcune delle sue scene più famose sono costruite seguendo il ritmo di un metronomo), sin dalla più giovane età, e che ha plasmato il linguaggio cinematografico da completo autodidatta.

Muovendo i suoi primi passi in uno Stato dove – come racconta nell’autobiografia Un albero è un albero – per poter realizzare il suo primo lavoro per conto di Mutual Weekly (la ripresa di una parata di soldati venuti a sedare una rivolta a Vera Cruz) si era dovuto rivolgere a una delle poche persone che possedeva una cinepresa in tutto il Texas: un autista, John Boggs, con cui poi allestì la sua prima rudimentale compagnia cinematografica.
Il testo che gli dedica la Berlinale – su cui intervengono tra gli altri anche Kevin Brownlow e Carlo Chatrian – ripercorre la sua carriera isolandone alcune tappe fra le meno scontate, come nel saggio dedicato da Lisa Gotto ad Alleluja! (1929), uno dei primi due film con un cast interamente afroamericano prodotto da uno studio hollywoodiano e il primo sonoro nella carriera di Vidor, che per poterlo realizzare incluse anche il suo salario nel budget. E che si colloca al crocevia fra documentario, film muto (di cui impiega l’attrezzatura più leggera per poter girare in location in Arkansas, aggiungendo in seguito la sonorizzazione) e musical.

Ostacolato dalla Mgm che non vedeva di buon occhio un film girato fra i raccoglitori di cotone neri del sud, testimonia l’incessante desiderio di Vidor per la sperimentazione nel racconto della storia di un uomo, Zeke (Daniel L. Haynes), responsabile della morte del fratello, divenuto predicatore e in bilico fra redenzione e dannazione. Sperimentazione anche di temi particolarmente scottanti nel 29, nella rappresentazione di una tensione costante, scrive Gotto, «fra visibile e udibile, sacro e profano, sensuale e trascendentale». Un film a suo modo rivoluzionario anche se oscurato oggi dalla raffigurazione paternalistica e aderente agli stereotipi dell’epoca degli americani neri.

D’altronde è necessario mettere nel suo contesto l’opera di Vidor, che appartiene a un tempo ormai scomparso: l’inattualità del sentimento che pervade i suoi lavori – non i temi e i film stessi che restano spesso attualissimi, come nell’angosciante segregazione di classe che caratterizza il sogno americano in La folla – è parte del suo fascino struggente, come sottolinea Scorsese fin dal titolo del suo saggio: Un sogno di umano progresso. «Guardando i suoi film si ha la sensazione che tutto sia vivo – le persone, ma anche i paesaggi, la materia grezza, i macchinari, gli edifici, le strade. Tutto si unisce nell’ondata travolgente del progresso umano. In questo momento della storia, è difficile perfino ricordare che c’è stato un tempo in cui il credo nel progresso era ampiamente condiviso». Un’ondata travolgente di cui resta traccia in primo luogo nel dinamismo dei suoi film, anche nei momenti più cupi, nel lavoro di un artista «che ha sognato un infinito progresso umano e lo ha tradotto in immagini in movimento».