I registi Ashley Sabin e David Redmon

Da una lavanderia, a una catena di videostores indipendenti nel Lower East Side della NY anni Novanta, a Salemi, in Sicilia, su invito di Vittorio Sgarbi, per poi tornare a New York, alla Alamo Drafthouse. L’odissea di Kim’s Video e della sua mitica collezione di cinquantacinquemila films ha ricevuto il giusto trattamento epico nel documentario di Ashley Sabin e David Redmon, Kim’s Video, appena presentato al Sundance Film Festival. Omaggio appassionato alla magnifica entropia di quell’inesauribile magazzino d’immaginario cinema, il documentario di Redmon e Sabin (Mardi Gras, Made in China, Camp Katrina, Girl Model, Sanctuary e Do Donkeys Act? tra i loro film) si muove spericolatamente tra il doc d’inchiesta e la performance situazionista, il saggio cinefilo e l’avventura picaresca. Tra Argo, Il padrino e Godard. Li abbiamo incontrati a Park City.

Sono passati circa vent’anni dalla chiusura di Kim’s Video e dall’annuncio che la collezione sarebbe stata donata al Comune di Salemi. Perché pensate che questa storia sia ancora così rilevante?

David Redmon: Credo che Mr. Kim e i suoi impiegati abbiano inventato una cultura veramente fuori dall’ordinario, il che ha fatto sì che la mitologia intorno a Kim’s Video permanesse nel tempo è aldilà di New York. Abbiamo ricevuto e-mail da gente in Svezia che andava da Kim’s a fare bootleg dei suoi bootleg, e che ci chiedevano di salvare la collezione. Incontrato ex clienti in Germania. È un mito che ha attecchito perché, mentre il Lower East Side è stato per così dire rinnovato – non voglio usare la parola gentrificazione perché si tratta di una trasformazione più profonda – Kim’s era emerso dalla cultura punk, non corporate. Era l’antitesi di catene come Tower o Blockbuster.
Ashley Sabin: E io credo che ci sia un desiderio di uscire dalle logiche corporate, di ritrovare il tipo di film e di storia che può nascere da una cultura più aperta, ricca di sorprese, di quella dominante di oggi.

Filmmakers come Alex Ross Perry, Robert Green e Sean Price Williams lavoravano da Kim’s. Quanto credete che i commessi siano stati responsabili della creazione di quello spazio mentale e della collezione stessa?

A.S.: Hanno avuto un ruolo enorme. Erano giovani, conoscevamo il cinema ed erano curiosi. Avevano interessi diversi tra loro e una fame di cose nuove che hanno portato da Kim’s. Insieme al loro entusiasmo e alla voglia di stabilire un rapporto vitale con la città, di entrare in contatto con altri artisti – David Bowie aveva un conto da Kim’s, Jarmush, i fratelli Coen. E il cinema era al centro di tutto ciò.

Anche Quentin Tarantino si è formato facendo il commesso in un videostore, in California. È curioso come gli autori nati da Kim’s abbiano sviluppato un linguaggio cinematografico molto diverso, più teso verso l’underground, la sperimentazione, il cinema straniero e meno legato a quello da studio hollywoodiano o al genere.

D.R.: Verissimo. È un’osservazione importante.
A.S.: Tornando al discorso che facevamo sulla decorporatizzazione dei media, è fondamentale che questa collezione rimanga – come d’altra parte voleva Mr. Kim – aperta al pubblico e accessibile alle nuove generazioni perché apre la testa, e il vocabolario di narratore, a centinaia di possibilità. Personalmente non sono d’accordo con chi dice che «tanto oggi si trova tutto online». Ma, anche se fosse possibile, l’unicità dell’esperimento di Kim’s era l’apparente casualità della collezione, i liberi accostamenti con cui veniva organizzata, le associazioni creative. Non dimentichiamo che Criterion allora era solo uno scaffale di Kim.
D.R.: E che quelli di Criterion andavano da Kim’s a cercare idee su quali film comprare. Il gesto, il linguaggio, l’audacia, la texture della collezione erano speciali, Kim’s invitava all’avventura: Let’s go for a ride. E il nostro film vuole riflettere quello spirito.

Quando avete deciso che il film sarebbe stato costruito come un’impresa picaresca?

D.R.: Abbiamo ore e ore di interviste. Anche con persone che alla fine non appaiono nel film, come Oliviero Toscani. Ma la storia è così complessa che abbiamo dovuto eliminare molto di quel girato.
A.S.: Un po’ perché era tropo complicato – chi vedeva il film non riusciva a raccapezzarsi nei meandri della storia – un po’ perché eravamo restii ad usare il formato tipico del film a interviste, con l’avvicendarsi di teste parlanti. E non volevamo l’effetto nostalgia del racconto in prima persona. Alla fine abbiamo inserito solo alcune interviste chiave, poi la voce narrante di David, cosa che lui non voleva assolutamente ma di cui avevamo bisogno per creare un’empatia che permettesse allo spettatore, specialmente se non sapeva cosa fosse Kim’s Video, di entrare nel film.
D.R.: Così abbiamo deciso di fare di David un personaggio, in modo da creare un effetto transfert. Il pubblico avrebbe capito meglio la storia se la viveva dal punto di vista di qualcuno che andava regolarmente al negozio e ne ha ricevuto l’educazione.
A.S.: In definitiva, il film è la storia un personaggio che perde qualcosa.., che non vuole lasciarla andare e che cerca di ritrovarla. È una trama con cui possono identificarsi tutti.

È bella la contrapposizione del Lower East Side newyorkese, notturno, un po’ fatiscente, pieno di giovani e di suggestioni punk, con l’arrivo a Salemi – vuota e luminosa come un quadro di De Chirico. Come siete stati accolti e come avete instaurato il rapporto? Alla fine, c’è quasi una complicità, come se foste tutti parte della stessa performance.

D.R.: Salemi Plays Itself, Salemi interpreta se stessa (il riferimento è Los Angeles Plays Itself, titolo del bel documentario di Thom Andersen; ndr). Sono partito in modo del tutto naïve -un ex cliente che voleva accesso alla collezione, come stabilito nel contratto. Non avevo nemmeno uno smart phone. Quello che vedi nel film è quello che è successo. Uno straniero arriva in paese a girare un film. Chi è? Cosa vuole? E perché è ossessionato da Kim’s, che è chiuso. Dopo quel primo viaggio ci sono tornato una ventina di volte – ci abbiamo messo cinque anni a fare il film. Più ci andavo, più capivo la loro prospettiva e loro capivano la mia. E dopo lo scollamento iniziale siamo arrivati a un’intesa comune: loro volevano promozione per Salemi. Mr.Kim voleva un festival, e ha ottenuto il suo festival. Voleva un museo, quindi stanno lavorando a un museo. Kim li ha messi in contatto con un festival coreano, e hanno iniziato una collaborazione. Abbiamo in programma di girare a Salemi un film di fiction… Tutto questo da quel primo momento caratterizzato dalla sfiducia.

In un certo senso Salemi e la storia hanno superato Vittorio Sgarbi, sono diventati altri. È stato difficile avere la sua partecipazione?

D.R.: Alla fine mi ha invitato a casa sua, a Roma, e abbiamo parlato. Ma ci è voluto del tempo…Però non ha mai dato in escandescenze, come molti mi avevano anticipato che sarebbe successo. Anche se, una volta, per farmi levare di torno, si è soffiato il naso davanti al mio obbiettivo. Credo che lui ritenga la nuova amministrazione responsabile di aver fatto fallire la sua idea. Me lo ha detto abbastanza chiaramente: «Pensi che alla mafia importi di 800.000 euro? Sono noccioline per loro. Quei soldi si sono persi, e non è colpa mia». Lo abbiamo invitato a New York ma ha detto no: «È stato un fallimento. Cosa ci vengo a fare?».