La vita dei giapponesi si ispira al rispetto della natura di cui si considerano un elemento accanto agli altri come insegna il buddismo, la religione venuta dalla Cina che si è diffusa in tutto il paese. Il pericolo sempre presente di terremoti li ha spinti a sviluppare l’arte della sopravvivenza in stretto rapporto con il territorio , i suoi sussulti e i suoi cambiamenti. La passione giapponese per il piccolo, che dà l’illusione del grande, del fragile che dà l’illusione del solido, si esprime anche nella composizione del paesaggio. La complicità dell’uomo con la terra che gli dà di che nutrirsi, costruire le abitazioni, lavorare e vestirsi, ma potendo in ogni momento rivoltarglisi contro, si manifesta attraverso un’arte dove utilità e bellezza vanno insieme. Se ne trova un’eco anche nel kimono, l’indumento tradizionale giapponese a cui è stata dedicata la recente mostra del Musée Guimet di Parigi.

Il kimono, l’antico “kosode”, fatto a T, arriva fino alla caviglia e ha ampie maniche. Non segue le curve del corpo come gli abiti occidentali, ma cade diritto offrendo una larga superficie piana sulla quale si possono sviluppare disegni complessi. Non tiene conto delle differenze anatomiche tra uomini e donne, variano solo i colori e i disegni. Quelli maschili hanno colori scuri, nero, blu, verde, decorazioni geometriche e sono meno articolati di quelli femminili. La struttura degli abiti femminili, più seducenti, è formata da numerose parti separate di seta o broccato lavorate a mano. I loro colori sono chiari e brillanti e possono avere tutte le sfumature dell’arcobaleno. I più antichi, soprattutto dell’epoca Edo, erano ancora più sontuosi perché composti da più strati, ma sempre accompagnati come i moderni dagli accessori tradizionali. Gli zoccoli (“geta”) in paglia o in legno con una suola a dente più o meno alta a seconda della classe sociale, da una striscia centrale a V, come nelle infradito, che richiedono calze (“tabi”) caratterizzate dalla presenza di una separazione per l’alluce. Per chiudere il kimono si sovrappone la parte sinistra su quella destra e si ferma in vita con una larga cintura (“obi”), con sul dorso un grande fiocco. Le acconciature sono complicate e arricchite da pettini e spilloni. Nonostante la configurazione lineare il kimono non è un indumento comodo perché obbliga a un gestire preciso e misurato sia nei piccoli passi dei piedi sia nei movimenti minimi delle braccia. La sua rigidità condiziona la posizione del capo e il modo di inclinare il busto che fa tutt’uno con le spalle, attribuendo alla donna che lo indossa un incedere solenne.

All’origine è per l’aristocrazia una specie di sottoveste, che diventa un abito soltanto quando viene adottato dai samurai, aprendo la strada all’uso generalizzato che ne fanno poi tutte le classi della popolazione giapponese. La fabbricazione del kimono ha alle spalle un’antichissima tradizione che gli artigiani tramandano da maestro a discepolo in una esemplare trasmissione di saperi che comprende le forme, le tecniche e le decorazioni che nelle arti tessili sono fondamentali. Senza fiori, rami di ciliegio, di pesco, di pruno, narcisi e orchidee coperti di neve, peonie, uccelli, nuvole, pini, ventagli, anatre, chioschi, paraventi, stuoie di bambù, ponticelli, libri, onde, rocce, aquile, il kimono non esisterebbe. Naturalmente sono solo alcuni delle migliaia di motivi ornamentali che arricchiscono gli abiti. Tessuti o dipinti, talvolta intrecciati a fili d’oro, su seta, broccato, lino o semplice cotone, mostrano una incredibile diversità a seconda delle varie epoche, facendo di quello che è da sempre l’indumento tradizionale una delle forme più tipiche e riconoscibili dell’espressione artistica del paese, anche perché nella cultura giapponese la bellezza di un indumento deriva non soltanto dalla sua forma ma soprattutto dalla ricchezza dei suoi ornamenti. Nei kimono del teatro nò, i motivi ornamentali sono quasi delle didascalie, delle storie che i personaggi rappresentano sul palcoscenico, sono calligrafie in quanto scrittura e pittura hanno lo stesso strumento d’origine , il pennello. L’abito diventa così un momento del processo scenico e narrativo che riesce a coinvolgere lo spettatore.

La mostra “Kimono. Au bonheur des dames”, curata come il ricco catalogo da Iwao Nagasaki e Aurélie Samuel, parafrasa nel titolo il celebre romanzo di Zola, “Al paradiso delle signore”, ma è di segno opposto. Mentre lo scrittore ambienta la vicenda nel momento in cui viene crescendo la crisi della piccola borghesia del commercio soffocata dalla nascita dei grandi magazzini con l’emergere delle imprese capitalistiche, in Giappone l’avvio della casa di moda Matsuzakaya al centro della mostra coincide col periodo di pace propizia allo sviluppo del commercio delle classi urbane industrializzate del XVII secolo, che prende il nome dalla città di Edo, l’odierna Tokyo. E’ una stagione di vertiginosi arricchimenti in cui i mercanti, intensificati i rapporti internazionali, diventano i banchieri dei nobili e dei samurai. Sono loro i mecenati di un’arte nuova che rappresenta la gente di città (“chonin”), il teatro kabuki e il mondo delle cortigiane, celebri per la loro bellezza e per le doti di musiciste e ballerine. I kimono più lussuosi sono ideati per loro. La pittura presta una grande attenzione alla donna con degli artisti come Utamaro, cantore della bellezza. E’ in questo momento che nasce il termine “ukiyo-e” che significa “immagine del mondo fluttuante”. Viene usata una prima volta dal poeta Asai Ryoi verso la fine del Seicento e riprende il concetto buddista della precarietà del mondo visibile e quindi dell’inutile attaccamento ai beni terreni tingendolo di lirica malinconia: “Vivere solo per il momento, rivolgendo tutta la nostra attenzione ai piaceri della luna, della neve, dei fiori di ciliegio e delle foglie d’acero, cantando canzoni, bevendo vino, divertendoci semplicemente fluttuando”. Sembra di risentire le parole di Van Gogh al fratello Theo: “Non è quasi una vera religione quella che ci insegnano questi giapponesi così semplici e che vivono nella natura come fossero essi stessi dei fiori?”

La particolare importanza della mostra deriva dal fatto che per la prima volta vengono esposti in Occidente i pezzi più prestigiosi e gli accessori della celebre casa offrendo un inedito punto di vista sull’evoluzione della moda giapponese dal Seicento ai giorni nostri e la loro reinterpretazione da parte degli stilisti moderni. Soltanto con la metà dell’Ottocento le europee eleganti cominciano a usare il kimono come veste da casa, quando il gusto per il giapponismo contamina arbitri della moda come Paul Poiret o Madeleine Vionnet. Il medico francese Roulet tesse le lodi e enumera i vantaggi sulla salute di un abbigliamento che non esercita alcuna costrizione sul corpo della donna: “Non ha un corsetto che comprima il torace, non giarrettiere che favoriscano le varici, non ha tacchi alti che possono portare alla deviazione dell’utero. La larga cintura sostiene il seno e protegge l’intestino dal raffreddamento”. Completamente diverso dagli scomodissimi abiti ottocenteschi in cui le signore erano strizzate fino a perdere il respiro, senza contare le abbondanti scollature che provocavano il mal sottile. Oggi numerosi creatori giapponesi, da Kenzo Takada a Yohiji Yamamoto e in particolare Junko Koshino, ne rivendicano l’inestinguibile eredità. Anche Yves Saint Laurent, Jean Paul Gaultier, John Galliano e Franck Sorbier si ispirano al Giappone, reinterpretando i codici culturali del kimono, che si conquista così un posto di primo piano sulla scena artistica della haute couture. Sorprendentemente se ne impadronisce anche il nuovo prèt-à-porter dell’estate che evoca il magico oriente con preziosi broccati, stoffe brillanti, suggestivi kimono ricoperti di fiori e arriva addirittura a contaminare la moda a prezzi stracciati di Zara e H&M.