Tra le uscite in sala più importanti di queste prime settimane di 2022 è il restauro (con copie in 35mm supervisionate dal regista) di La conversazione, il thriller esistenzial/tecnologico che Francis Ford Coppola considera ancor oggi il suo film più riuscito. Ispirato a Blow Up di Antonioni e a Il Lupo della steppa di Herman Hesse, e uscito durante le udienze di Watergate nonostante fosse stato concepito anni prima, quel lavoro di Coppola sembra non solo meravigliosamente moderno, filmicamente parlando, ma scandalosamente attuale.

NON SORPRENDE quindi che i suoi temi e l’aura di paranoia che lo avvolge tornino in un film realizzato oggi, Kimi, di Steven Soderbergh. Passato dal prepensionamento annunciato qualche anno fa a una fase produttiva intensissima, Soderbergh (al momento impegnato sul set di un nuovo Magic Mike) ha trovato nelle piattaforme uno sbocco ideale al suo bisogno compulsivo di fare cinema. Kimi è il suo terzo progetto consecutivo per HboMax (dopo Let Them All Talk, con Meryl Streep, Dianne Wiest e Candice Bergen, a bordo della Queen Mary; e il gangster film nel Michigan anni Cinquanta No Sudden Move). Come gli altri, è un film piccolo, basato su un’idea forte, denso di idee, tensione e di energia fisica. Il film di uno che si diverte dietro alla macchina (è lui che gira, dietro allo pseudonimo Peter Andrews), risolvendo i rebus che crea per sé stesso.

Dalle finestre di un confortevole loft di Seattle Zoe Kravitz e i residenti dell’edificio industriale che gli sta di fronte si studiano a vicenda. È la famigliarità a distanza che si è creata con la pandemia. Angela (Kravitz) lavora come sound extractor per conto dalla corporation che produce Kimi, una specie di Alexa. Il suo compito quello di decifrare richieste a cui Kimi non ha saputo rispondere, tradurle per i programmisti che, sulla base delle sue indicazioni, aggiornano il cervello elettronico del temibile elettrodomestico. Come osservando un pesce nell’acquario, vediamo Angela in tutte le sue routine -fitness, doccia, lavaggi multipli di un dente che la dà fastidio, e una dieta iper-salutista, quando non è incollata davanti allo schermo del computer a origliare conversazioni e desideri di migliaia di sconosciuti.

OGNI TANTO la chiama la mamma. Ogni tanto consulta un dottore via zoom. Se, dopo un po’, a forza di guardarla nella sua metodicità, abbiamo l’impressione di un animale in gabbia, è perché Angela è effettivamente bloccata nel suo loft, insieme a tutte quelle voci senza corpi. Ma non è colpa della pandemia.

È UN ENNESIMO file che cambia tutto, quando dal groviglio di rumori, a forza di scavare digitalmente, Angela estrae il suono di una scena di violenza. E si sente in dovere di avvisare qualcuno. Soderbergh e lo sceneggiatore David Koepp (non a caso, ha scritto anche Panic Room) frullano nel thriller puro gli ingredienti in cui si dibatte il nostro quotidiano – la dittatura della tecnologia, la fine della privacy, solitudine, sesso e mancanza di sesso, scollamento dalla realtà, spersonalizzazione dei contatti umani, la morsa invisibile del potere corporate, e persino il # metoo. Lo fanno con grande intelligenza e una certa levità.
Kimi è un film americano degli anni Settanta per il terzo millennio, quello senza attention span; Hitchcock coreografato da Busby Berkeley. Cliff Martinez invece di Bernard Hermann. Quando, dal loft, la scena si sposta in strada, il plot esplode in un inseguimento -fisico e del cervello- elaborato come un balletto. Angela raggiunge gli uffici della compagnia per cui lavora e -dopo un incontro con Rita Wilson, cattiva come un Gorgone- la situazione si evolve dal male in peggio.