«Penso che una giornata equivalga a un anno e che un anno possa rappresentare tutta una vita: qualunque sia la durata, il tempo ha lo stesso significato». Così parlava Kim Ki-duk nel 2006 nel finale di una lunga chiacchierata con il filmmaker Antoine Coppola, spintosi fino a Kyung Buk, al confine tra le due Coree, in quella che era sempre stata la casa del regista de L’arco e di molti altri radianti film: era la chiusa di Kim Ki-duk cinéaste de la beauté convulsive.

Quindici anni più tardi quel documentario sarebbe stato scelto dalla scorsa XIX edizione del Florence Korea Film Festival – diretto da Riccardo Gelli – cuore di una rosa di otto film (i meno noti degli inizi e alcuni fra gli ultimi), omaggio al regista coreano che tanto aveva impregnato di sé la rassegna e poi venuto a mancare, causa complicazioni da virus, poco prima di compiere sessant’anni, l’11 dicembre 2020.

Allora Kim Ki-duk, nel 2006, come contrappuntava discreto Coppola in voice over, era già un autore premiato a Berlino per La samaritana e a Venezia per Ferro 3 La casa vuota (2004), e in procinto di vedere uscire il suo ultimo film dell’epoca, Time (2006): una riflessione sull’imago della persona amata e il tempo, come fosse il suo lancinante Vertigo. Eppure, a testimonianza del controverso rapporto con il suo Paese, credeva anche che sarebbe stato l’ultimo film a essere distribuito in Corea. Ora sappiamo che a quel tempo Kim Ki-duk si trovava «nel mezzo del cammin» di quelli che alla fine saranno i suoi 24 lungometraggi.

Pure, tracciare linee temporali col senno di poi ha poco senso, perché l’unica cosa certa è quel languore agrodolce che ci coglie quando lo ascoltiamo raccontare – con la testa allora rasata e il berretto – dei suoi ardui inizi, degli anni da soldato, del desiderio frustrato di entrare alle Belle Arti, sebbene come ritrattista si procurerà un biglietto per la Francia: «I film europei hanno interpellato sentimenti nel fondo di me».

E come appare più giovane dei suoi 44 anni di allora mentre fa compiere a Coppola un tour del museo degli oggetti dei suoi film: come la scultura di Camille Claudel in Wild animals (‘97), o l’autobus rosso di Address Unknown (2001), o l’armadio de L’arco (2005): tutto senza soluzione di continuità tra vita e cinema perché ogni cosa viene dal cuore del suo vissuto, dai suoi viaggi: non vuole niente di falso, non sopporta i set, i luoghi che non risuonino delle stratificazioni temporali di chi li ha vissuti, le star, i film che non si possono fare in poco tempo e con un piccolo budget, quei corpi che non mettono in gioco la propria più cruda oscurità, come farà lui stesso in Primavera estate …(2003).

E se alla fine del viaggio Coppola ipotizza che il suo ospite abbia schivato le domande sulla violenza nei suoi film e in particolare sulla donna, Kim Ki-duk ha contemplato Ferro 3 come un’analisi multiprospettica al confine tra materiale e spirituale e poi, nel finale, si è fatto fotografare accanto a una foto di una donna con un bambino al seno e in costume tradizionale durante la guerra di Corea. E tra tanto dolore, abissi incomprensibili di sé – in quel lontano 2006 – senza nascondere la sua felicità per il FIPRESCI per Ferro3, racconta di scrivere nella stanzetta del figlio: niente libri, solo il computer.

Ciao Kim Ki-duk che andava in cerca delle piccole pietre che lui stesso aveva legato al corpo degli animali per poterli liberare, per liberare se stesso: in cerca dei fili tra umano e natura, spazio e tempo, impalpabili come il suo sorriso di ragazzo sopravvissuto grazie alla verità e alla bellezza.