Kim e Trump, la strana intesa per una pace a sorpresa
Usa/Corea del Nord Secondo summit dopo quello di Singapore nel giugno del 2018. Che sia il suo istinto, la sua presunzione di fare qualcosa che nessuno dei suoi predecessori aveva neppure immaginato o il desiderio di ottenere almeno un successo diplomatico a livello internazionale o la combinazione dei tre fattori, la politica nordcoreana di Trump potrebbe finalmente piantare i primi semi di distensione in Asia nord orientale e nell’area dell’Asia Pacifico
Usa/Corea del Nord Secondo summit dopo quello di Singapore nel giugno del 2018. Che sia il suo istinto, la sua presunzione di fare qualcosa che nessuno dei suoi predecessori aveva neppure immaginato o il desiderio di ottenere almeno un successo diplomatico a livello internazionale o la combinazione dei tre fattori, la politica nordcoreana di Trump potrebbe finalmente piantare i primi semi di distensione in Asia nord orientale e nell’area dell’Asia Pacifico
Sembra proprio che Trump abbia sotterrato l’ascia di guerra agitata contro il leader nordcoreano Kim Jong-Un nell’autunno del 2017 nella crisi più grave fra Stati uniti e Corea del nord in quasi settant’anni.
È probabile che nel secondo vertice con Kim Jong-Un ad Hanoi imprima un nuovo corso alla fallimentare politica nordcoreana delle amministrazioni degli ultimi 25 anni. L’opinione pubblica americana pare non essersene accorta tanto meno la stampa liberal che lo attacca per la sua propensione a schierarsi con dittatori di vari colori e nazionalità e per aver concesso, nel primo summit, troppo a Kim trattato con eccessiva deferenza.
Il cambio di rotta si poteva già estrapolare dal lungo discorso alla conferenza stampa alla fine del primo vertice di Singapore del giugno del 2018; già un evento in sé, perché è stato il primo incontro fra un presidente americano in carica e un membro della famiglia dinastica dei Kim. Ma i dubbi sulle sue reali intenzioni sono caduti il 31 gennaio dopo la traduzione dei suoi tweet e dei suoi discorsi a braccio nella spiegazione articolata ed esaustiva che ne ha dato a Standford l’incaricato speciale per i rapporti con la Corea del Nord, Sthephen Biegun, estraneo, non a caso, per provenienza e formazione agli ambienti che compongono il Deep State aborrito dal presidente.
Nella versione di Biegun, Trump ha pensato di tagliare con l’accetta il nodo gordiano dell’annosa questione nucleare coreana, epifenomeno della guerra del 1950, ancora in fieri. E ha capito l’opzione nucleare scelta da Pyongyang per quello che è: il modo meno costoso (visto lo stato disastrato dell’economia), ma di sicuro effetto dissuasivo, per difendere paese e «famiglia» dalla potenza più grande del mondo e dai suoi ricchi alleati sudcoreani dotati di forze armate più esigue ma di mezzi militari ben più sofisticati di quelli nordcoreani.
Nel 2017 Pyongyang è entrata nel club nucleare con una salve di missili e sei test nucleari, l’ultimo dei quali di impensata potenza.
Di qui la reazione furibonda del presidente americano e la sua minaccia di radere al suolo con un attacco preventivo «limitato» il piccolo paese di 25 milioni di abitanti. Dall’odio all’«amore», rivendicato pubblicamente, il passo è stato breve.
Che sia il suo istinto, la sua presunzione di fare qualcosa che nessuno dei suoi predecessori aveva neppure immaginato o il desiderio di ottenere almeno un successo diplomatico a livello internazionale o la combinazione dei tre fattori, la sua politica nordcoreana potrebbe finalmente piantare i primi semi di distensione in Asia nord orientale e nell’area dell’Asia Pacifico. Dalla versione di Biegun si possono capire i compromessi che la Casa bianca è disposta a fare per accelerare una possibile intesa con Pyongyang e mantenere il dialogo.
L’apertura di un ufficio di collegamento a Pyongyang per creare il canale di comunicazione per ora inesistente fra i due paesi. Una dichiarazione che metta fine alla guerra di Corea per ora appesa al cessate il fuoco del 1953 (una dichiarazione formale non ufficiale), come già stabilito in linea di massima ancor prima del summit di Singapore.
Far cadere la precondizione della denuclearizzazione completa verificabile irreversibile, il mantra che ha fatto fallire tutti negoziati precedenti dal 1994 in poi.
Da parte sua Pyongyang dovrebbe accettare formalmente impegnarsi a non costruire ulteriori armi (bombe e missili a lunga gittata o Icbm in grado di colpire bersagli americani come Guam o l’Alaska o le coste degli Stati uniti). Come promesso lo scorso settembre, la Corea del Nord dovrebbe anche smantellare la centrale nucleare di Yongbyon dove si riprocessano plutonio e uranio «in cambio di misure corrispondenti».
Trump dovrebbe quindi sollevare o alleggerire la ridda di sanzioni piovute a raffica sul Nord della penisola dopo il primo dei sei test nucleari (2006) e permettere, come richiesto dal presidente sudcoreano Moon Jae-In, la realizzazione dei numerosi progetti di cooperazione di vario genere al Nord studiati a Seoul per «costruire un sistema di coesistenza pacifica». Si capisce perché Moon per il secondo anno consecutivo abbia proposto il conferimento del Nobel per la Pace a Trump.
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