«L’inquadratura si sposta su una folla in marcia. ’Gli assassini dei nostri figli finiranno in galera. Il Consiglio supremo delle forze armate e la polizia finiranno in galera. Andate a Tahrir! Difendete la vostra piazza! Finché tutti voi resterete a Tahrir mio figlio sarà ancora vivo! Finché tutti voi resterete a Tahrir tutti i nostri martiri saranno ancora vivi! Non concedetegli neanche un centimetro! Tutti gli assassini finiranno in galera. La rivoluzione continua!’».
I mediattivisti del collettivo @ChaosCairo raccontano la rivolta fin da quando ha mosso i suoi primi passi nella celebre piazza del centro del Cairo nel gennaio del 2011. Hanno descritto la cacciata di Mubarak sotto la spinta delle proteste popolari, ma anche la repressione, gli scontri con i Fratelli Musulmani, la deriva del governo islamista e il ritorno al potere dei militari. Attraverso le loro immagini, le voci che raccolgono per le strade della capitale egiziana, la musica, l’electro-shaabi, che accompagna il risveglio di una generazione, narrano se stessi, a partire dalla coppia tra Mariam e Khalil che si è formata tra cortei, visite ai feriti in ospedale o alle famiglie dei caduti all’obitorio, e la rivoluzione di cui sono protagonisti. Fino alla vittoria o fino alla sconfitta. Certi che di quel fuoco qualcosa, comunque resterà.
È così, attraverso un romanzo per immagini, modellato su di una sorta di piano sequenza unico in cui si stagliano via via i nitidi ritratti dei protagonisti – La città vince sempre (Guanda, pp. 334, euro 18,50) – che Omar Robert Hamilton, filmmaker e giornalista trentatreenne che vive tra l’Egitto e gli Stati Uniti, ricostruisce non solo la sua esperienza nel movimento di piazza Tahrir ma anche i sogni e le speranze di quei giovani ribelli che nell’ultimo decennio hanno iniziato a cambiare il volto delle società arabe.

Il suo romanzo racconta la rivoluzione egiziana del 2011 e il debutto delle «primavere arabe». Quando ha capito che lo avrebbe scritto?
Una volta tornato a New York, nell’estate del 2014, un anno dopo il colpo di stato militare in Egitto, ciò che avevo in testa da tempo ha trovato finalmente una forma. Il generale Al Sisi aveva consolidato la sua presa del potere, le prigioni erano piene di attivisti e il massacro di Rabaa (ottocento persone uccise dai militari al Cairo nell’agosto del 2013, ndr) aveva scioccato un paese ancora recalcitrante ad essere sottomesso. Era un momento di grande incertezza per la società egiziana e temevo che, dopo la repressione, su quanto era iniziato a piazza Tahrir calasse anche l’oblio. Ma avevo accumulato così tante informazioni ed emozioni in quei giorni che sentivo su di me la responsabilità di raccontare quanto era accaduto.

Da filmmaker, a Tahrir si era unito a dei mediattivisti. Per raccontare la vicenda ha scelto però la forma del romanzo. Può spiegarci la sua scelta?
Di ritorno dal Cairo ho dovuto dedicare molto tempo a organizzare il materiale che avevo raccolto nei giorni della rivoluzione. È stato un lavoro lungo e impegnativo, durato dei mesi. Inizialmente avevo immaginato un film scandito da alcune voci fuori campo: una di un registro più «elevato», per la ricostruzione storica, l’altra più intima, personale, per raccontare le emozioni e per così dire «il quotidiano» di quei giorni. Concentrandomi su questo aspetto del progetto, mi sono però reso conto che solo la prosa poteva rendere davvero quanto avevo vissuto.
Così, invece di un film è nato un romanzo, anche se le immagini sono rimaste al centro di tutto: i miei ricordi di quanto accaduto in Egitto sono del resto racchiusi in ciò che avevo girato in quel momento.

Per un romanzo che narra i giorni febbrili di una rivoluzione, sorprende il ruolo che anche l’amore gioca nella trama. Non solo quello che lega i due protagonisti, Khalil e Mariam, ma anche quel filo sentimentale che sembra accumunare tutti coloro che partecipano alle proteste. Piazza Tahrir è stata anche una disperata prova d’amore?
Senza dubbio. E l’urgenza, la necessità quasi, di raccontare quanto avevo vissuto, partiva anche da questo elemento. Volevo ricreare le emozioni, le sensazioni, i sentimenti che attraversavano quella folla per la quale la rivoluzione era anche e soprattutto un grande atto d’amore. Khalil e Mariam, nei quali ho messo molto di ciò che ho provato io stesso allora, ma anche quei giovani brillanti e decisi, i «martiri» di cui traccio il profilo nel libro, che con il loro sacrificio hanno testimoniato il loro amore per la libertà. Non a caso, in arabo le parole martire e testimonianza provengono dalla stessa radice: «È il testimone che non vuole smettere».

A un certo punto della narrazione, Khalil misura quanto sta accadendo in Egitto con le pagine di «L’Età della Rivoluzione» di Eric Hobsbawm, in particolare con la Francia del 1789, e sottolinea con amarezza: «Non ci sono islamisti nell’universo di Hobsbawm. Qui non ci sono liberali contro conservatori. Qui abbiamo la Fratellanza musulmana e l’esercito: due destre estreme». Del celebre storico marxista, il suo personaggio sembra però condividere soprattutto il pessimismo riguardo al futuro….
Non penso alla rivoluzione come a un fenomeno che ha un inizio e una fine ben precisi. Perciò, malgrado in molti sostengano che non c’è mai stata una rivoluzione che abbia vinto davvero, tutte le fratture che si sono prodotte fino a oggi hanno cambiato comunque il corso delle cose e continuano a farlo. I fatti di piazza Tahrir parlano ancora a tutti gli egiziani, rivelando protagonisti dimenticati, aspetti celati della rivolta, e sono certo che il portato complessivo di tutto ciò continuerà a pesare sul futuro delle nostre società.

Il libro fa riferimento alle violenze sulle donne a Tahrir, come al ruolo che queste ultime hanno giocato nella rivoluzione egiziana. Un capitolo della storia in gran parte ancora da scrivere?
Credo che non solo si è sottovalutato il ruolo delle donne, ma non si è compreso appieno quanto è avvenuto. Si è preferito leggere i fatti di piazza Tahrir attraverso il ricorso agli stereotipi razzisti sugli uomini arabi, omettendo così di interrogarsi sull’interazione tra l’utilizzo della violenza sessuale come strumento politico da parte dello Stato e la violenza patriarcale di sempre. Per questo non ci si è accorti che quella egiziana è stata anche e soprattutto una rivoluzione delle donne.