Sei anni fa, poco più che trentaduenne, Kevin Powers si era reso protagonista di uno degli esordi letterari più fulminanti del nuovo millennio: Yellow Birds, un romanzo compresso, secco, potente, nel quale rievocava la propria esperienza in Iraq, trovando una misura a tratti perfetta tra la brutalità della narrazione in presa diretta, lo strazio del ricordo e la ricchezza dell’impianto metaforico.

vvio, pertanto, che Powers fosse atteso con particolare interesse alla sua seconda prova: interesse ulteriormente lievitato nel momento in cui, dalla narrazione di guerra con una forte matrice autobiografica, si è spostato con decisione verso il romanzo storico. Eppure, tra Yellow Birds e Un grido nelle rovine, uscito negli Stati Uniti lo scorso anno e ora proposto dalla Nave di Teseo nell’ottima traduzione di Carlo Prosperi (pp. 272, euro 19,00) gli elementi di continuità sono ben presenti – se non dominanti – sia sul piano stilistico (nella fertile secchezza delle scene d’azione e nel lirismo di alcuni passaggi onirici) che su quello tematico. Dalla somma dei due libri sembra quindi emergere una autentica poetica, che si inserisce con tratti di assoluta originalità in una tradizione americana i cui antesignani «logici» sono Crane e Hemingway, e i maestri contemporanei Cormac McCarthy e William Vollmann.

C’è un breve passaggio, al centro esatto di Un grido nelle rovine, nel quale il tema portante del libro, il nucleo dal quale si irradia una storia complessa e corale che si estende nell’arco di un secolo e più, viene enunciato nel modo più limpido e inconfutabile. George Seldom, un uomo di colore novantenne, è appena stato sfrattato dalla sua casa di Richmond, Virginia, abbattuta per far spazio all’interstatale che attraverserà la città.

Un vuoto dai confini indefiniti
Privato del luogo nel quale si sono accumulati i ricordi di una vita intera, George sente di voler fare i conti con il proprio passato e soprattutto con le proprie origini, avvolte nel mistero più assoluto: da bambino è stato infatti abbandonato sotto la veranda di una zitella sulla sponda del fiume Lumber, nella Carolina del Nord, con un biglietto nel quale c’era scritto, «Occupatevi di me, adesso appartengo a voi». Prima di quell’episodio, ci viene sottolineato, «non c’era nulla, forse certi giorni un nome. No, non un nome, qualcuno che chiamava una balia negli anfratti più remoti della sua memoria. Così remoti da non essere nemmeno un ricordo ma una storia che George immagina di ascoltare, della quale non rammenta né la trama né il narratore, sperando che a un certo punto del passato la verità avesse avuto l’occasione di essere raccontata».

È questo «vuoto dai confini indefiniti» a risucchiare George nella propria orbita e a indurlo a partire in treno alla ricerca della vecchia baracca nella quale ricorda confusamente di aver vissuto da bambino. Ed è questo vuoto che il romanzo di Powers ricostruisce, raccontando una storia di sangue e di guerra, di schiavitù e sopraffazione ma anche di amore e umana solidarietà che coinvolge quattro diverse generazioni, prendendo le mosse dai prodromi della Guerra Civile per giungere fino agli anni Ottanta e agli ultimi giorni di vita di Lottie, la barista che ha accolto George e lo ha accompagnato nella sua ricerca.

Prima di partire per il loro viaggio, Lottie e George vanno al cinema a vedere Il cavaliere della valle solitaria, il western archetipico nel quale uno straniero irrompe in una città dominata dal crimine e dalla legge del più forte per imporvi l’ordine e la civiltà. Alla fine della proiezione, Lottie si diverte a mimare le scene del film sul marciapiede, «atteggiando le mani a pistole e sparando a chiunque si vedesse in giro, come può fare solo chi non ha mai visto sparare una pistola se non al cinema». Se la ragazza è in estasi per Shane, il protagonista, interpretato da Alan Ladd, George lo ritiene invece responsabile di tutto ciò che accade agli altri personaggi del film, e ne critica quello che considera un vero e proprio delirio di onnipotenza. Il suo personaggio preferito è invece il villain, interpretato da uno dei più grandi caratteristi del secondo dopoguerra, Jack Palance.

«Chiunque dicesse che un fucile appeso al muro è occasione di suspense doveva essere europeo. In America non ci sarà mai il dubbio se venga usato o no. La pistola spara quando viene oltrepassato il limite, e il limite era stato oltrepassato molto tempo prima, quando eravamo nudi e vagavamo per la savana, dormendo sotto i baobab. Secondo George, Palance doveva essere un attore di raro talento, perché quei minuscoli occhi scuri raccontavano la verità al cuore di ogni storia, ossia che la violenza è una forma primigenia di intimità, lo è sempre stata e lo rimarrà per sempre».

Intimità e violenza come elementi connaturati e complementari: è questa la chiave di lettura che regola i rapporti umani all’interno del romanzo. Quelli tra padroni bianchi e schiavi neri, in primo luogo, ma anche quelli tra vincitori e vinti, portatori di progresso e difensori della tradizione. La brutalità, sotto forma di stupro, mutilazione, linciaggio, esproprio, assassinio, accomuna carnefici e vittime, che non esitano a farvi ricorso ogni volta che le circostanze o il tornaconto personale lo impongano.

Qui, tutti hanno ucciso
Nel passato di George, che è nato quando la Guerra di Secessione era in pieno corso, tutti, prima o poi, hanno ucciso o storpiato, mossi dall’ambizione, dalla follia, dal desiderio di vendetta, dalla fame di libertà. Ha ucciso Balia, la giovane schiava nera che è la vera madre di George, e che nel lungo periodo trascorso in prigionia alla Lumpkins’ Jail, un luogo di orrori che tutti conoscono come il «Mezzo acro del Diavolo», ha imparato la «lingua dell’eternità», decidendo che, «se era possibile evitarlo, non si sarebbe di nuovo infangata con le parole che l’uomo bianco le aveva infilato in bocca a forza»; ha ucciso Letellier, il padre che George non ha mai conosciuto, un ricco proprietario terriero che ha sposato la causa del progresso ma sa bene che, se il mondo sta cambiando, le persone, invece, restano immutabili nei loro desideri, e che per questo, «in un modo o nell’altro, tutti dovremo pagare per ciò che vogliamo»; ha ucciso Rawls, il nero che fin da bambino ha imparato a conoscere la differenza tra il dolore che Emily, la sua padroncina bianca, può provare per un rimprovero subito dal padre, e il suo, di dolore, che rimarrà vasto e insondabile, «associato per sempre ai ricordi», e pronto quindi a rinfocolarsi davanti a ogni nuova irruzione della memoria. Ha ucciso, infine, il colonnello Thomas Jefferson Fitzgerald, che, proprio come lo Shane di Alan Ladd, irrompe tra le rovine della guerra con lo scopo di imporre l’ordine dei vincitori, solo per assistere impotente a un’ultima orgia di sangue.

È dunque l’intimità con la violenza – come già in Yellow Birds – a riguardare ogni personaggio ed episodio del romanzo e a sancirne la compattezza, mentre il perfetto controllo della struttura, con i suoi incastri temporali complessi e variati, la qualità della rievocazione storica e la ricchezza delle soluzioni stilistiche confermano Powers come una delle voci più convincenti che la narrativa americana degli ultimi anni abbia proposto.