Big Boss se ne è andato. Ma le sue battaglie per il calcio africano non saranno cancellate dalla memoria. Stephen Keshi, morto ieri a 54 anni in Nigeria per un attacco cardiaco, a casa sua è uno dei pezzi più importanti del football in Africa, tra i padri costituenti, uno dei due del grande Continente a vincere la Coppa d’Africa (assieme all’egiziano Al Gohary) sia come calciatore (22 anni fa), che seduto su una panchina (nel 2013). C’era anche lui, capitano e difensore centrale quando le Super Aquile di Finidi George, Sunday Oliseh e Jay Jay Okocha spaventavano, anzi di più l’Italia di Arrigo Sacchi ai Mondiali americani, avanti con il salto quasi completato ai quarti di finale fino a quando Roberto Baggio decideva di strofinare la lampada e risolvere il complicato match.

Tre anni fa per lui l’accusa – pesante – di razzismo. Con una protesta ufficiale alla Fifa presentata dalla federazione del Malawi, Keshi in tv, si scagliava contro il commissario tecnico belga della nazionale del Paese africano, Tom Saintfiet, suggerendogli di tornare nel suo paese perché era «un tipo bianco che non capiva nulla di calcio africano». Va detto, a onor di cronaca, che Saintfiet in precedenza aveva dichiarato di ritenere Calabar, città nigeriana, non sicura per ospitare la partita tra le Nazionali dei due Paesi. Controverso anche il suo rapporto con il ct che lo ha allenato negli anni Novanta, Clemens Westerhof, il suo mentore criticato dopo quella sconfitta immeritata contro gli azzurri ai Mondiali americani: lo aveva accusato di poca esperienza internazionale. In realtà Keshi denunciava il diverso trattamento riservato dalle federazioni africane ai tecnici europei, attesi e rispettati, una riverenza professionale assente verso gli allenatori neri, subito sotto pressione per ottenere risultati pena la lettera di licenziamento.

Insomma, la stella del calcio africano era un tipo tutto d’un pezzo, e l’accusa di razzismo strideva completamente con il suo vissuto. Keshi ben conosceva il significato della parola intolleranza, emarginazione. Lo aveva vissuto sulla propria pelle quando giocava in Belgio, al Lokeren, 30 anni fa, come ha raccontato in recenti interviste a La Gazzetta dello Sport. Tra supermercati chiusi per la sua presenza, la frutta che finiva tra i rifiuti se era Keshi a toccarla. O solo sfiorarla.

Il suo capolavoro sportivo, assieme alla Nigeria vincitrice della Coppa d’Africa tre anni fa, resta il Togo portato per la prima volta alla fase finale di un Mondiale, quello tedesco vinto dall’Italia di Marcello Lippi. Un miracolo durato due anni, con i successi nelle qualificazioni africane, macchiato indelebilmente dalla federazione del Paese africano, che lo licenziava prima dell’inizio della competizione, avvalorando la sua teoria sulla differente considerazione dei tecnici stranieri. Al suo posto finiva Otto Pfister, tedesco con un curriculum che non avrebbe dovuto invogliare una federazione ad affidargli una panchina in un Mondiale. Per il Togo il torneo si trasformava in incubo. Tre sconfitte, il nuovo commissario tecnico esonerato dopo la seconda. E il rimpianto di atleti e tifosi di non aver visto Keshi in panchina nel momento sportivo più importante nella storia del Paese africano.

Ma per le qualificazioni ai Mondiali di due anni fa Keshi riusciva a fare di meglio, mettendo assieme una rosa di atleti musulmani e cattolici. In attacco giocavano assieme Emenike, bomber musulmano del Fenerbahce e Musa, cattolico del Cska Mosca. Un mix di religioni, modi differenti di stare al mondo mentre il terrorismo islamico che faceva capo a Boko Haram minacciava di fare a pezzi qualsiasi sentimento o idea proveniente dall’Occidente. Una strategia del terrore fatta di 450 omicidi in pochi anni, compresi gli appassionati del pallone affascinati dal calcio europeo, dalla Premier League, Serie A.

Un’educazione all’integrazione religiosa cui lo stesso Keshi era stato iniziato da ragazzino, avendo studiato in una scuola cattolica di Ebute Metta, sobborgo di Lagos, in Nigeria, prima di girare il mondo dietro a un pallone. Un’educazione e uno stile di vita, difeso e protetto sino alla fine.