John Kerry ora condivide il contenuto di “Palestine, Peace not Apartheid”, il libro dell’ex presidente Usa Jimmy Carter pubblicato qualche anno fa tra polemiche roventi? Forse. Comunque sia, mentre oggi si concludono senza alcun risultato i nove mesi di trattative israelo-palestinesi, il Segretario di stato americano si è convinto che, se nel prossimo futuro le due parti non troveranno un accordo per la formula dei due Stati, Israele rischia di diventare “uno Stato di apartheid” (già lo è, sostengono da tempo i palestinesi). Lo scrive il The Daily Beast – popolare sito statunitense di informazione ed opinioni, guidato da Tina Brown, ex editrice di Vanity Fair e The New Yorker – che riferisce di un intervento di Kerry al meeting della “Trilateral Commission”, il gruppo di studio che promuove la cooperazione tra Nord America, Europa e Asia. Israele, se non saprà separarsi dai palestinesi, avrebbe spiegato il capo della diplomazia Usa, «rischia di dar vita ad uno Stato di apartheid, con cittadini di seconda classe». Kerry – scrive ancora Daily Beast – ha anticipato che a un certo punto gli Stati Uniti potrebbero sottoporre alle parti un proprio piano di pace, da prendere o lasciare.

Rivelazioni del The Daily Beast a parte, gli Stati Uniti sanno bene cosa accade sul terreno. Ciò rende ancora più pesanti le responsabilità di Washington. In particolare dell’Amministrazione Obama che prima ha lasciato intravedere l’avvio di una politica Usa in Medio Oriente in parte diversa da quella del passato e poi si è adeguata all’abituale linea di appoggio quasi totale agli alleati israeliani. Nonostante i “contrasti” tra Netanyahu e Barack Obama riportati e analizzati per anni dalla stampa israeliana e statunitense. Senza un arbitro realmente imparziale sarà impossibile soltanto immaginare una soluzione al conflitto israelo-palestinese. Senza l’applicazione della legge internazionale il quadro non potrà che peggiorare, per i palestinesi naturalmente. La distanza tra le parti è enorme e il più forte, il governo israeliano, detta le sue condizioni al più debole.

Gli ultimi giorni sono stati particolarmente roventi. Ormai tutto è piegato alle esigenze dello scontro politico. Il premier israeliano Netanyahu ha bollato come una «mossa propagandistica», tesa solo a «colpire l’opinione pubblica internazionale», l’importante dichiarazione fatta domenica dal presidente palestinese Abu Mazen sull’Olocausto: «Il crimine più odioso contro l’umanità nell’era moderna», ha detto a poche ore dall’inizio in Israele delle commemorazioni per il Giorno della Shoah. Il leader palestinese ha espresso solidarietà alle famiglie degli ebrei e di tutti gli altri uccisi dai nazisti, aggiungendo che l’Olocausto «rappresenta il concetto di discriminazione etnica e razziale che i palestinesi respingono con forza e contro cui si battono». «Il popolo palestinese sta soffrendo per l’ingiustizia, l’oppressione e la negazione di pace e libertà. Siamo i primi – ha spiegato Abu Mazen – a chiedere di rimuovere l’ingiustizia e il razzismo». Per questo, ha aggiunto, «chiamiamo il governo israeliano a cogliere l’attuale occasione per concludere una pace basata sulla visione di due Popoli due Stati».

A queste parole Netanyahu ha reagito accusando Abu Mazen di aver raggiunto nei giorni scorsi un accordo di riconciliazione con il movimento islamico Hamas, che, ha detto il premier israeliano, «intende distruggere Israele». Ha quindi ribadito, in un’intervista alla Cnn, che Israele non parteciperà a negoziati con un governo palestinese appoggiato dagli islamisti. Hamas, ha concluso Netanyahu, dovrà riconoscere lo Stato ebraico se i palestinesi vorranno riprendere le trattative che Israele ha interrotto dopo l’accordo per la formazione di un governo di consenso nazionale tra Fatah, il partito di Abu Mazen, e il movimento islamico. In Israele però non tutti condividono l’interpretazione solo politica che Netanyahu vuole dare alla condanna dell’Olocausto fatta dal leader palestinese. Efraim Zuroff, del Centro Wiesenthal, ha accolto con soddisfazione le dichiarazioni di Abu Mazen, altrettanto ha fatto lo scrittore David Grossman.

Intanto il Comitato centrale dell’Olp ha annunciato che lo Stato di Palestina aderirà ad altri 60 trattati ed istituzioni internazionali (dopo la Quarta Convenzione di Ginevra e ad altri 14 trattati delle Nazioni Unite). L’Olp inoltre condiziona la ripresa delle trattative con Israele al riconoscimento da parte del governo Netanyahu dei “confini del 1967”, al blocco dell’espansione delle colonie e al rilascio (concordato in precedenza) di decine detenuti palestinesi.