Non c’è (video)gioco in Kentucky Route Zero, solo la constatazione della sconfitta che si prolunga nella zona grigia del Game Over della vita, che non è la morte ma il momento della sua più profonda cognizione e sfiancata accettazione. Non c’è redenzione, neppure un tentativo di ribellione contro il fato e il sistema, perché sarebbero fatiche inutili nella dolce sciatteria di un altrove che non è sogno e neppure incubo, ma il riflesso della nostra inutilità di “uomini a nolo”, la cui unica traccia di esistenza consiste nel debito che sopravviverà alla nostra estinzione.

Ci sono voluti sette anni a Cardboard Computer per giungere all’epilogo della loro indefinibile odissea della disfatta, un quinto atto di un dramma interattivo ora disponibile nella sua integralità per console e pc, e terminarlo ci lascia esausti e sollevati, desiderosi di tornare a illusioni elettroniche più mendaci ma gentili nel mentirci con le loro promesse di evasione, di riscatto e di avventura. Ma l’ombra permane, perché è la stessa che temiamo, constatiamo e guardiamo tutti i giorni, negli occhi nudi che ci osservano da uno specchio.

Nel suo negare il videogioco come come forma di intrattenimento più o meno significativa, Kentucky Route Zero trascorre con la poesia mesta di un racconto di Raymond Carver, assumendo un dimensione artistica mai consolatoria, pura nella sua talvolta crudele sincerità.

Cominciamo a muoverci nel ruolo di Conway, autista di un furgone che consegna mobili d’antiquariato accompagnato da un vecchio cane, ricordi luttuosi, sconfitte e da una sopita ma ancora crudele dipendenza dall’alcool. Dobbiamo recapitare il nostro carico in un posto che non c’è, almeno nel mondo come prima lo concepivamo, una strada tra le strade, la Route Zero. Si uniranno altre persone a Conway, nel suo viaggio tra gli spazi onirici di un Kentucky desolante e desolato, e il nostro punto di vista di “giocatori” sfumerà sovente nel loro, o meglio si confonderà, perché non sappiamo mai davvero che siamo, spettatori e attori al contempo di uno spettacolo teatrale così ambiguo nel suo verismo che potrebbe non esserlo affatto. Se tanti videogiochi filtrano la propria espressione visionaria dal cinema, è invece proprio dal teatro che deriva quella dell’opera di Cardboard Game, i cui rari e ispirati scenari minimalisti sembrano lo scenario di un palcoscenico invisibile, mimetizzato.

Per i cinque atti che compongono quest’opera che qualcuno, assurdamente, ha definito come avventura grafica, vaghiamo in un “on the road” che non è lisergico, ma soffuso di una tranquilla incoscienza da valium. Trascorriamo per l’esperienza conversando, leggendo e ascoltando, qualche volta camminiamo o viaggiamo su una cartina autostradale muovendo l’icona di una ruota. Partecipiamo a dialoghi surreali che potrebbero corrispondere a quelli di un David Lynch senza ironia alcuna mentre l’atto dell’esplorazione è sovente restituito solo da un testo, come alle origini del videogioco. Potremo esperire attimi che sfiorano il sublime per poi, con alta arte crudele, negarcelo. Dovremo rispondere a tante domande senza che la nostra risposta interessi davvero a qualcuno dei fantasmi di numeri che incontriamo.

Ci sono ultra-dimensionali uffici burocratici dove mangiadischi con la puntina rotta risuonano delle poche battute ripetute della marcia funebre della terza sinfonia di Ludwig Van Beethoven, nebulosi fiumi sotterranei che navighiamo a bordo di una barca su cui siede un mammuth laido, miniere abbandonate tra i cui neri tunnel morirono affogati i minatori, chiese che nascondono distillerie non umane di whiskey, stazioni di rifornimento nei cui sotterranei giocano le allucinazioni dei giocatori lanciando simbolici dadi da venti facce, bar quasi vuoti dove stagnano menzogne e disperazione, boschi incantati dalla presenza di un’aquila gigante che trasporta edifici, un antro di un re della montagna dove agonizza un muffoso prototipo di calcolatore con un mondo nei suoi circuiti. Nel quarto atto attendiamo minuti che si eternano nel tedio e nella frustrazione in una stanza piena di monitor, seduti nei pressi di un tavolino, cercando di scrivere parole impossibili. Non succede niente, siamo bloccati, vittime di un bug, ma prima di ricaricare il quarto atto da capo e fare scelte che non portino a questo esito ci chiediamo se anche anche l’errore di programmazione non sia voluto e faccia parte della messa in scena.

Qualche volta risuona una canzone, ad un certo punto decideremo noi il suo testo, rari momenti emozionali che si estinguono come l’effimera bellezza delle farfalle per lasciare il panorama sonoro a tetri ronzii.

Kentucky Route Zero, sebbene possa deprimere se vissuto con emotività, è comunque un’opera d’arte nuova che usa le nostre convinzioni di cosa sia il videogioco per annichilirle, un capolavoro sulla disfatta che si adagia luttuoso nella coscienza, anche quando infine ce ne allontaniamo, perché dialoga con l’idea che ognuno ha di crisi.