Nei primi anni settanta in Giappone sono stati un periodo tragico e allo stesso tempo importante per il cinema del Sol Levante, il definitivo crollo e la trasformazione di alcune delle più grandi case di produzione è accompagnato all’emergere dell’importanza della televisione come moderno focolare domestico.

Parallelamente, dal punto di vista sociale, il periodo è caratterizzato dallo spegnersi della grande onda di rivolta che ha animato il decennio precedente. Una delle case di produzione che dichiara fallimento è la Daiei, compagnia che non solo aveva partorito nei primi anni cinquanta opere divenute veri e propri classici e finestre aperte sul cinema giapponese come I racconti della luna pallida d’agosto e Rashomon, ma la cui produzione seriale è stata una delle più importanti e significative per il cinema dell’arcipelago.

Una delle serie che ancora oggi viene ricordata e spesso rivisitata è Zatoichi, le avventure dello spadaccino cieco interpretato da Shintaro Katsu. Il primo film della serie esce nel 1962 per la regia di Kenji Misumi, regista che sarebbe ritornato a dirigere altri episodi della serie e che in seguito avrebbe anche collaborato con Katsu e la sua nuova casa di produzione durante i primi anni settanta.

Misumi è il focus di una interessante mini-retrospettiva intitolata «Kenji Misumi: un autore inconsapevole» nell’edizione di quest’anno de Il Cinema Ritrovato di Bologna (25 luglio – 3 luglio), iniziativa che cerca di gettare luce su un regista che, seppur avendo lavorato soprattutto nel cinema di genere, ha saputo graziare alcune delle sue opere con elementi che oggi possono venir riconosciuti come autoriali.

Siberia
Dopo una breve esperienza come assistente alla regia con la Nikkatsu prima del secondo conflitto mondiale, Misumi fu mandato al fronte, catturato dai russi e imprigionato in Siberia per due anni e mezzo. Una volta ritornato in patria nel 1948, entra alla Daiei e dopo un breve periodo come aiuto regista debutta dietro alla macchine da presa nel 1954 con Tange Sazen: Kokezaru no tsubo, terzo atto di una trilogia che riscuote molto successo di pubblico e che di fatto lancia la sua carriera.

Misumi rimane per tutta la sua carriera fedele alla Daiei, per la quale in quasi due decenni, fino al dissolvimento della compagnia, si specializza soprattutto in film in costume, i cosiddetti jidai-geki. Misumi è anche il regista di quello che viene considerato il primo lungometraggio giapponese in 70mm, Shaka (Budda), maestoso film storico, non riuscitissimo a dire tutta la verità, ma dove compaiono tutte le grandi star che lavoravano alla Daiei nel periodo. Dal già nominato Shintaro Katsu a Machiko Kyo, dalla giovane star Hiroshi Kawaguchi a Raizo Ichikawa. Proprio con quest’ultimo, una delle stelle che più hanno brillato nella cinematografia giapponese del dopoguerra, ma la cui carriera e vita sono state purtroppo interrotte nel 1969 a soli trentasette anni, Misumi realizza alcuni dei suoi lavori più interessanti.
Fallita la Daiei nel 1971, Misumi lega il suo nome alla Katsu Productions e all’amico attore per cui debutta come regista di una serie televisiva prima e dietro alla macchina da presa in seguito per la serie cinematografica di grande successo, Kozure okami (Lone Wolf and Cub), di cui dirige i primi tre lungometraggi, tutti usciti nel 1972.

Nel 1974 Misumi inizia a lavorare a Okami yo rakujitsu wo kire (L’ultimo samurai) per la Shochiku, una della grandi case di produzione giapponesi rimaste all’epoca, opera che si sarebbe rivelata il suo ultimo film, Misumi infatti muore per insufficienza epatica il 24 settembre 1975.

Misumi è spesso stato etichettato come «un artigiano del cinema», definizione che gli rende giustizia solo in parte, in quanto, come si scriveva più sopra, nella sua breve carriera è stato capace di portare lampi di originalità ed innovazione nei generi che ha attraversato, per lo più jidai geki e chanbara eiga (film di cappa e spada). Alcuni dei suoi film migliori, fra i quali quelli presentati a Bologna durante il festival, mostrano un linguaggio visivo sofisticato ottenuto spesso attraverso immagini e narrazioni poetiche ed astratte.

In questo senso il miglior lungometraggio di Misumi presentato a Il Cinema Ritrovato è senza dubbio Kiru del 1962, titolo che significa «uccidere con la spada», interpretato da Raizo Ichikawa e che fu scritto dal grande sceneggiatore e regista Kaneto Shindo. Le vicende, che partono da uno degli inizi più folgoranti della storia del cinema giapponese, seguono il percorso personale del giovane Shingo Takakura, dal perfezionamento dell’arte del combattimento con la spada, alla fedeltà verso il suo signore, fino alla scoperta delle sue vere origini.

A Bologna sarà proiettato anche Ken (La spada) del 1964, lungometraggio adattato da un racconto di Yukio Mishima e girato in DaieiScope in un bianco e nero dai forti contrasti. Si tratta di una rara incursione di Misumi nel gendai geki, film ambientati nel periodo moderno, che racconta le vicende di un ragazzo ossessionato dal kendo, ancora interpretato da un magnifico Ichikawa che porta sullo schermo un tipico personaggio uscito dall’immaginazione e dalla poetica di Mishima.

Kiru e Ken rappresentano i primi due capitoli della cosiddetta «trilogia della spada», trilogia che viene completata nel 1965 da Kenki (La spada del demonio), qui il protagonista Hanpei, ancora una volta interpretato da Ichikawa, è un samurai dai toni gentili che ama i fiori e che un giorno diventa però il discepolo di un abile spadaccino e comincia così la sua carriera di assassino. Concludono la mini-retrospettiva dedicata a Misumi due lavori ambientati nel periodo Edo (1603-1867), Shirokoya Komako del 1960, tragica storia d’amore tratta da fatti realmente accaduti e già portata sul grande schermo e a teatro e Namidagawa (Fiume di lacrime), breve e delicata storia che tratteggia le difficoltà di una famiglia alle prese con problemi economici e gli ostacoli che questi pongono verso la relazioni sentimentali delle due giovani sorelle.