Novembre 2019: dentro l’atelier di Michelle Segre – nel Bronx, a New York – l’artista lavora alle sue creazioni attaccando pazientemente dei lunghi fili a un’orbita nera, mentre da fuori entrano i suoni della città: il treno che passa, lo scrosciare dell’acqua delle pompe con cui gli impiegati di un autolavaggio stanno pulendo dei camion. Rumori che sembrano intessere un dialogo segreto con il lavoro dell’artista, di cui la filmmaker Kelly Reichardt rende visibile sullo schermo il lato nascosto, il processo creativo che porterà all’opera compiuta, venendone cancellato.

«Stavo lavorando a una sceneggiatura sugli artisti al lavoro e mi sono bloccata: così ho deciso di entrare effettivamente nello studio di alcuni di loro», racconta la regista a Judith Revault d’Allonnes, curatrice della retrospettiva a lei dedicata al Centre Pompidou, inizialmente in programma in questi giorni e rimandata al prossimo ottobre (dal 14 al 24) a causa dell’emergenza sanitaria.

PER IL POMPIDOU Reichardt ha realizzato due cortometraggi per la serie Où en êtes-vous? che dal 2014 il museo parigino commissiona agli artisti al centro delle proprie retrospettive, presentati online lunedì e seguiti da una conversazione a distanza con la regista in attesa di incontrarla di persona in ottobre. Nel secondo corto l’autrice di First Cow si sposta sulla costa Ovest, a Long Beach in California, dove c’è l’atelier a cielo aperto in cui lavora la scultrice Jessica Jackson Hutchins, e dove Reichardt incontra anche i lavori di Alex Demetriou.

«Volevo filmare anche altri artisti – poi è arrivato il Covid e non ho potuto continuare l’esperienza, ma sono stata fortunata ad avere qualcosa da montare mentre ero chiusa a casa nel periodo del lockdown». Nei suoi due lavori realizzati nell’ultima fase della presidenza Trump – «mentre giravamo nello studio di Michelle lei come tutti noi stava ascoltando il primo processo per l’impeachment di Trump, ma non volevo che ’entrasse’ nel film quindi lo abbiamo interrotto durante le riprese» – la regista si concentra in particolare sul processo creativo femminile:

«Negli ultimi anni stiamo vedendo sempre più lavori di donne, artisti neri e delle Prime nazioni. Mi interessa ascoltare queste voci: in America abbiamo vissuto una lunga fase in cui degli imbecilli erano alla guida del Paese, c’era bruttezza ovunque, e l’unica cosa che ci ha sostenuti è stata l’arte, il pensiero che questi mostri non fossero al centro di tutto. È stato un modo per impedire che quell’orribile famiglia consumasse tutto il nostro ossigeno con la sua misoginia, il razzismo: la proliferazione di voci nuove e diverse è stata una risposta a tutto questo, un modo per poter continuare a respirare».

DALLA SUA CASA a Portland, in Oregon, Reichardt è stata testimone del «lunghissimo» anno appena trascorso: dal «disastro ambientale» degli incendi che hanno devastato la costa occidentale – «che con tutto quello che è accaduto dopo sembrano un vago ricordo» – alla proliferazione della «violenza delle polizia» e l’omicidio di George Floyd. «Anche a Portland, notte dopo notte, si sono tenute tantissime marce, poi gli scontri con la polizia sono diventati sempre più violenti e ora invece le forze dell’ordine sono quasi scomparse, sembra un po’ il Far West. Ma sembrano anche gli anni Ottanta: i prezzi delle case crescono vertiginosamente e sempre più persone sono costrette a vivere nelle tende».

Il sentimento di incertezza che avvolgeva un personaggio «precario» come Kurt – il coprotagonista del suo Old Joy (2006) ambientato proprio in Oregon – «si è intensificato in questi 15 anni in cui i ricchi sono diventati sempre più ricchi, e per chi vive in una condizione di precarietà la situazione non fa che peggiorare». L’elezione di Biden, dice Reichardt, «ci ha fatto senz’altro tirare un sospiro di sollievo, ma la sensazione è che sia sempre tutto terribilmente instabile, non c’è fiducia in un miglioramento duraturo: come in tante altre parti del mondo i luoghi più vulnerabili degli Stati uniti sono sempre più esposti alle intemperie…».

LO STESSO stacco di montaggio che nel suo corto ci porta dallo studio di Segre al lavoro nell’autolavaggio, dice infatti la regista, aggiunge qualcosa alla percezione della sua creatività: «Si comprende anche quale sia il privilegio di realizzare dell’arte, e di avere un luogo per farlo…».

Girati in 16 mm, i suoi due film hanno la stessa qualità tattile del lavoro degli artisti, dell’argilla manipolata nell’atelier californiano e trasformata in terracotta nei forni da cui emerge l’enorme drago scolpito da Demetriou – «che durante il trasporto in camion è andato distrutto, ma Alex mi ha detto che non era triste nonostante gli fosse costato tre settimane di lavoro, perché realizzarlo era stato bellissimo». Il processo creativo appunto, che Reichardt rende visibile e perfino udibile nel paesaggio sonoro che lo accompagna sullo schermo, nella minuziosità di gesti all’apparenza ordinari, la cui somma si trasforma nel respiro dell’arte e del cinema.