Strano, triste, e a volte perfino un po’ patetico che la vita intera spesa a canalizzare energie su uno strumento musicale si riduca, poi, a due, tre momenti ricordati, come se in nuce si potesse contenere la grandezza di chi invece va valutato sul lungo periodo, non certo per quanto, spesso, va a cadere sotto la luce del palcoscenico dell’effimero spacciato per «memorabile». Anche perché spesso memorabile e detestabile sono uno il rovescio dell’altro, a seconda dell’ angolo di osservazione. Keith Emerson è stato un personaggio memorabile della musica del secolo che ci siamo lasciati alle spalle da tre lustri, e probabilmente anche uno dei musicisti più detestati da chi a un certo punto ha deciso che le note popular e rock dovessero fare «punto e a capo», dimenticando complessità, articolazione, difficoltà di esecuzione. Due, tre accordi e via, grattugiati sulla chitarra e un po’ stonati, e forza con le spallate punk contro quei vecchi dinosauri imbolsiti come Keith Emerson, resi fragili dalla loro stessa grandezza immobilizzante.

Ecco, questo è un discorso che Keith Emerson non poteva proprio accettare. Infatti s’è sparato un colpo di pistola alla testa proprio per questo: aveva un ennesimo tour programmato, e la malattia nervosa degenerativa che non gli dava tregua non gli faceva più usare bene la mano destra, quella dei voli impossibili sui tasti bianchi e neri che avevano fatto sognare milioni di appassionati. Da bambino (erano i primi anni Cinquanta) l’avevano messo davanti a un pianoforte, e lui aveva scoperto subito che bisognava impegnarsi, per cavarne bei suoni. E giù a studiare l’impossibile Art Tatum che Charlie «Bird» Parker, mica uno qualsiasi, ascoltava stupito a New York quando faceva il lavapiatti, e il «fast shout» che oggi chi si occupa di jazz chiama stride piano e boogie, e poi la cellula germinatrice del tutto, il ragtime che metteva a dura prova le giunture ritmiche delle note occidentali. Peraltro adorate e studiate da Keith Emerson bambino: tutte, da Bach a Prokofiev, passando per quel Mussorgsky che spunterà fuori a innervare un disco molto importante, per il progressive rock anni Settanta. Di sicuro Emerson iniziò come cultore molto british e molto serio del jazz: si chiamava T-Bones il suo gruppo, e l’unico disco l’hanno pure ristampato di recente.

Di sicuro lo stile di Keith Emerson, in rotta d’avvicinamento, è il caso di dire «progressiva», verso il rock con ambizioni di ricerca e classicità è un caso esemplare di quel «principio di articolazione» di cui ha scritto Middleton studiando la popular music: prendere note e tecniche da uno stile, e ricontestualizzarle in un altro, facendo diventare irriconoscibile l’originale. Prendete ad esempio l’organo Hammond, quell’ingombrante e festosa tastierona multipla con tanto di ventole che i jazzisti usavano per swingare duro, negli anni Cinquanta e Sessanta: sotto le dita di Keith Emerson diventa una sorta di mugghiante creatura sonica primordiale, esattamente come i primitivi, scenografici e complicatissimi sintetizzatori avvolti in un groviglio impossibile di cavi e spinotti che proprio Emerson, tra i primi ad usarli, fece diventare famosi, domandoli sul palco come fossero riottose fiere musicali. Con tanto di pugnali in mano, per fare un po’ di scena: gentilmente forniti dall’amico e appassionato di militaria Lemmy, futuro Mad Max del rock più duro esistito. Si diceva: due, tre brani, e il gioco è fatto, per ricostruire una vita di musica. Con Keith Emerson i più direbbero, riandando con un po’ di fatica alla figura allampanata e dai lunghi capelli in piedi tra le sue muraglie di tastiere, Lucky Man, C’est la vie, Honky Tonk Train Blues, che in Italia diventò anche la celebre sigla televisiva per Odeon, tutto quanto fa spettacolo. Il primo brano, con Emerson, Lake & Palmer, è per molti la ballata perfetta, con la coda siderale e gemente di moog di Emerson, che in realtà non amò mai particolarmente quel brano, nato, secondo quanto raccontò qualche anno fa Greg Lake al Festival della poesia di Genova, da un modesto giro di re imparato sulla chitarra acustica a dodici anni, ben prima di imbracciare il basso. C’est la vie spuntò invece fuori a Parigi, quando ascoltarono la voce rapinosa di una «chanteuse» che usciva da un bistrot, e il brano finale, il boogie immancabile, era un ovvio ricordo di quando le dita di ragazzo di Emerson provavano a cavalcare l’onda ritmica fremente di Meade Lux Lewis. Keith Emerson ebbe il suo primo «vero» gruppo di confine e di sperimentazione nel 1967. Si chiamavano Nice, hanno lasciato una manciata di dischi, fino al 1971, ed erano una sorta di versione embrionale e vagamente impacciata e naif del supergruppo a venire. Molta energia, la voglia di prendere la musica classica e strapazzarla con amore, e giù i primi affondi in Bernstein (che non gradì la loro versione di America), Sibelius, Bach. Il jazz faceva capolino invece con Brubeck, il Rondò preso e rivoltato per i piedi, e riassestato su un rockeggiante 4/4. Emerson, con Greg Lake e Carl Palmer creò la perfetta creatura prog rock. Il Trio che, in scena, assumeva la proporzione gigantesca di un’orchestra sinfonica rinforzata e spazzata da brezze jazzy. Fu la convivenza, a volte forzata, spesso gioiosa e immensamente creatrice di tre «ego» assai strutturati: Greg Lake arrivava dal primo nucleo dei King Crimson, altro gruppo epitome del prog rock più colto. Carl Palmer proveniva da più dure avventure hard rock con i cupi ed efficaci Atomic Rooster: peraltro capitanati da un altro tastierista virtuoso, Vincent Crane, che, nell’89, per uno di quegli spietati guizzi del destino rock fece la stessa fine di Keith Emerson: suicida. Emerson con Lake e Palmer creò un «monstrum» prog rock capace di sfrecciare e alludere, di essere magniloquente o agilissimo. Specchio e riflesso di un altro grande tastierista prog rock, Rick Wakeman, ma con un «quid» di carica ritmica in più, che arrivava dalle frequentazioni jazz. Nel primo, splendido disco targato E,L&P si ritagliò una intera facciata per far vedere come sapevano correre quelle dita anche prendendo spunto dall’ostico e «barbarico» Bartók, nel secondo si inventò la saga fantasy e fantascientifica di Tarkus, un gioiello prog rock che ha sfidato il tempo, esattamente come la splendida triade di lavori a venire, di lì in avanti: Trilogy, Pictures at an Exhibition, rilettura prog rock e visionaria dei Quadri di un’esposizione di Mussorgsky, Brain Salad Surgery, un algido capolavoro finale con l’inquietante cover disegnata dal grande Hans Ruedi Giger.

Poi cambiarono i tempi, Emerson rimase un po’ prigioniero del suo personaggio tutto voli sulla tastiera e trucchi spettacolari, ed iniziarono gli anni del declino del prog rock, con occasionali e un po’ appannate resurrezioni anche per la gloriosa sigla a tre. Il tastierista inglese non si perse d’animo, ed iniziò a fare altro. Senza mai perdere l’amicizia con gli altri del supertrio. Ad esempio a lavorare di lena e con efficacia sulle colonne sonore, come la fortunata e robusta traccia per Inferno di Dario Argento, del 1980, a rileggere in chiave orchestrale le vecchie composizioni targate E,L&P, a scrivere la storia della sua vita, intitolata, con autoironia molto inglese, Pictures of an Exhibitionist. Quella mano destra aveva cominciato a dargli fastidio sul serio, e il futuro non prometteva nulla di buono, per i nervi e i tendini devastati. No, non era (solo) un autoreferenziale narcisista dei tasti, Keith Emerson. Era un perfezionista che voleva dare il meglio, a ogni costo. Anche quello di scomparire di scena per non doversi sentire inadeguato.