Con ogni evidenza, per la scrittrice californiana di origini giapponesi Katie Kitamura la traduzione – e la traducibilità – rappresentano questioni cruciali del nostro tempo, tanto da autorizzare la lettura del suo ultimo romanzo – Tra le nostre parole (appena uscito da Bollati Boringhieri nella elegante traduzione di Costanza Prinetti, pp. 176, € 17,00) – come una parabola sull’incerto statuto di chi traduce e di ciò che viene tradotto nei mondi di oggi, iperconnessi dalla tecnologia e dalle tante migrazioni scelte o forzate, ma altresì inquinati da vecchi e nuovi imperialismi.

Nel romanzo precedente, Una separazione, l’anonima narratrice era una giovane traduttrice londinese che parte per il Peloponneso alla ricerca del marito scomparso e trasforma il viaggio in Grecia nell’autopsia di una opaca unione altoborghese, capace di affrontare la propria verità soltanto lontano dall’Inghilterra. Analogamente, l’anonima narratrice di Tra le nostre parole è una interprete giapponese che lascia New York subito dopo la morte del padre e il trasferimento a Singapore della madre, per svolgere un incarico temporaneo alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia.

Olanda/Europa
La capitale olandese, «tranquilla ed energicamente civilizzata», le ricorda tutte le città europee nelle quali ha trascorso lunghi periodi della vita, eppure riesce comunque a disorientarla e a farla sentire un’eterna immigrata. Entrambe le donne appaiono psicologicamente alla deriva e allo stesso tempo professionalmente performanti, sono frastornate dal dolore ma fin troppo lucide quando si tratta di usare le parole per «gettare passerelle attraverso le voragini».

A muovere i fili di una storia che acquisisce via via i tratti del thriller psicologico è una interprete impiegata nelle estenuanti sessioni del processo all’ex presidente di uno stato africano accusato di genocidio. In una prosa algida e minimalista, che non distingue graficamente il racconto dal dialogo e usa gli aggettivi come se fossero proiettili, Kitamura anatomizza l’inquietante intimità che si stabilisce tra la giovane cosmopolita rimasta senza radici, bene edotta sul «complesso calcolo di performance» inscritto negli imperscrutabili rituali del tribunale penale, e il presunto criminale di guerra, investito dell’aura di un potere arcaico, che è tuttora riconosciuto nel paese africano ma è completamente delegittimato in Europa.

Se Intimacies, il titolo originale del romanzo, preannuncia una trama basata sul quel genere di vicinanze forzate e casuali che produce vertigini esistenziali e metaforizza ciò che l’antropologo indiano Arjun Appadurai ha definito ethnoscapes («etnorami»), il titolo scelto per la versione italiana restringe l’orizzonte di attesa, sagacemente ponendo l’accento su tutto ciò che accade nel momento in cui chi ha la responsabilità deontologica di trasporre significati da una lingua a un’altra realizza che «sotto le parole, o tra due o più lingue, sono in agguato voragini che possono spalancarsi senza preavviso».

Disequilibri di potere
Incorniciate da un intreccio esile – che include un brutale attacco di violenza inferto al cuore dei quartieri ricchi nonché un irrisolto triangolo amoroso –, e fatte filtrare tra le righe di una narrazione reticente e un po’ paranoide, affiorano penetranti riflessioni sul senso del tradurre in contesti regolatori internazionali, nei quali tra chi traduce e chi viene tradotto esistono incolmabili differenze di percezione e di esperienza e, soprattutto, incommensurabili disequilibri di potere. «La Corte funzionava in base alla sospensione dell’incredulità e le persone venivano portate davanti alla Corte per interpretate un ruolo». E ancora: «Un’interprete non doveva solo dichiarare e interpretare, ma anche ripetere l’indicibile».

Katie Kitamura è abilissima nel modulare i toni e i tempi di una voce narrante che dice e non dice, che cerca di comprendere ma allo stesso tempo non vuole rivelarsi, che traduce alla perfezione le spaventose testimonianze di vittime e carnefici a lei sconosciuti, ma non sa come interpretare i segnali della realtà che le è familiare. A dispetto di ciò, l’impressione finale è che Tra le nostre parole non si faccia fino in fondo carico delle implicazioni individuali e collettive di una contraddizione che è così espressiva dello spirito del tempo. Una contraddizione che il romanzo intelligentemente associa all’ambiguo statuto etico e politico di molte istituzioni democratiche occidentali e delle persone che in esse operano, ma che forse richiederebbe qualcosa in più di una formula narrativa di successo.