Un’autentica saga che abbraccia due continenti, quasi un secolo di vita e almeno tre generazioni. Nelle ottocento pagine di Deep River (Solferino, pp. 800, euro 22, traduzione di Marinella Magrì) Karl Marlantes (1944) racconta le sorti di un famiglia di immigrati finlandesi nell’estremo nord-ovest degli Stati Uniti lungo buona parte del Novecento. Cercando fortuna oltreoceano, i fratelli Koski non fuggono solo fame e miseria, ma anche le persecuzioni della polizia zarista che in loro, che condividono chi le idee rivoluzionarie e socialiste dell’epoca chi i richiami alle tradizioni e al patriottismo locale, vede dei pericolosi oppositori da eliminare. L’approdo, nella zona selvaggia e coperta di foreste intorno alle rive del fiume Columbia, tra il Canada e gli Stati americani dell’Oregon e di Washington, sarà però quasi altrettanto duro. Sono gli anni in cui si sviluppa l’industria del legname, lavori durissimi e zero diritti, in un clima di repressione e violenza verso gli attivisti sindacali, a cominciare da quelli dell’organizzazione rivoluzionaria degli Industrial Workers of the World (Iww) a cui aderisce la giovane Aino, una delle protagoniste del romanzo.

Lo scrittore Karl Marlantes

Intrecciando la descrizione, poco nota, di come gli Stati Uniti si siano costruiti anche attraverso le lotte dei «nuovi venuti», all’eco di tradizioni e miti che questi immigrati hanno portato con sé dalle terre d’origine, Marlantes costruisce una sorta di romanzo-mondo sorprendente e emozionante, sorretto da una lingua chiara che pesca nei dialetti e nelle sfumature del linguaggio quotidiano dei personaggi. Per l’autore, che si era rivelato nel 2010 con Matterhorn (Rizzoli), un romanzo straordinario nel quale aveva rielaborato, dopo aver fatto i conti a lungo con una sindrome post traumatica, la propria esperienza di ufficiale dei marines in Vietnam, una conferma della capacità di raccontare l’America, le sue ferite e le sue passioni, con sguardo lucido e incrollabile determinazione.

Le vicende che racconta in «Deep River» hanno a che fare con le radici della sua famiglia. Quanto pesano gli avvenimenti reali nello sviluppo del romanzo?
La maggior parte della storia è frutto della mia immaginazione, che però è stata fortemente influenzata dai racconti di quanto hanno vissuto i miei antenati. Mio nonno materno era un pescatore e lavorava come boscaiolo il resto dell’anno. Mia nonna materna cucinava per i lavoratori di un campo di disboscamento. Suo fratello ha avviato una piccola azienda di legname in Oregon. Altri tre fratelli coltivavano la terra lungo il fiume Naselle nel sud-ovest dello stato di Washington. Mia nonna faceva parte degli Iww, anche se non è mai stata così coinvolta nell’organizzazione come il personaggio di Aino che è nato pensando a lei. Quindi, lo sfondo generale dell’intero romanzo si è definito in base ai ricordi delle loro vite, ad eventi «reali» che hanno assicurato un solido orizzonte storico al libro.

Le biografie di questi immigrati finlandesi nell’estremo nord-ovest degli Stati Uniti raccontano anche una pagina delle battaglie sociali del Nuovo Mondo, in particolare la presenza e il radicamento di un’organizzazione come l’Iww tra i lavoratori di foreste e segherie. Come è avvenuto l’incontro tra il sindacalismo rivoluzionario e queste comunità?
Credo che tra costoro in molti si siano avvicinati ai Wobblies perché rappresentavano un modo concreto per opporsi alle immense diseguaglianze economiche e di potere che i lavoratori hanno dovuto affrontare durante l’era del primo capitalismo. Nel caso delle attività che si svolgevano in quelle foreste, a questo si aggiungeva la denuncia del disprezzo per la sicurezza dei lavoratori che affrontavano ogni giorno pericoli mortali. L’Iww non era la sola forza in campo all’epoca tra queste comunità. C’erano naturalmente anche i gruppi politici di ispirazione socialista o laburista, la cui impostazione si scontrava però con il mito che in America non ci fosse un vero e proprio sistema di classi sociali e che chiunque potesse diventare ricco a prescindere dalle sue origini. E poi c’erano i sindacati tradizionali, legati all’American Federation of Labor, che erano però organizzati su base professionale: il sindacato dei carpentieri o quello dei camionisti, ad esempio. Ciò escludeva un numero enorme di lavoratori che non avevano competenze specifiche. Inoltre, poiché molte di queste attività erano già organizzate lungo linee di genere o di razza, i sindacati tendevano a seguirne l’esempio anche nelle proprie strutture. L’Iww voleva invece organizzare tutti: non importava se eri italiano o norvegese, maschio o femmina, o, anche, bianco o nero; sebbene questo ideale di superamento delle barriere razziali non sia stato sempre superato davvero anche nelle loro fila. L’idea che stava alla base della loro strategia è che si potesse esercitare molta più pressione per migliorare i salari e le condizioni di vita dei lavoratori, se tutti si fossero organizzati nella medesima struttura e avessero scioperato insieme: l’orizzonte auspicato era quello della One Big Union che avrebbe portato anche ad un cambiamento politico, un vero sbocco rivoluzionario alle lotte sociali.

Contro l’Iww, il governo di Washington utilizzò anche le norme contenute nell’Espionage Act del 1917 che era stato creato per combattere i nemici della nazione in guerra. Qualcosa che nella storia americana si è ripetuto anche in seguito, basti pensare all’11 settembre.
Il governo americano temeva che in particolare questi immigrati finlandesi avessero portato con sé le idee che erano state alla base di quanto accaduto in Russia nel 1917: la rivoluzione. Inoltre erano preoccupati che la produzione che sosteneva lo sforzo bellico della Prima guerra mondiale potesse vacillare se gli scioperi allora in atto fossero sfuggiti di mano. Quindi, due paure molto pratiche, anche se del tutto esagerate, portarono all’utilizzo contro l’Iww di quella norma pensata per le spie nemiche. E, allo stesso modo, timori altrettanto infondati, hanno portato all’adozione del Patriot Act dopo l’attacco alle Twin Towers. Consapevole di questa somiglianza tra le due vicende, mentre scrivevo sono riuscito a inserire un paio di commenti sprezzanti su questo modo di alimentare e utilizzare la paura. Sul fondo, c’è l’idea che all’epoca degli Iww, e forse non solo allora, i maggiori partiti americani fossero estremamente sensibili alla volontà dei ricchi che potevano sostenerli anche economicamente e che di conseguenza fosse conveniente usare il tema della «sicurezza nazionale» per difendere e mantenere felici questi ultimi.

Nel romanzo emerge più volte il riferimento al «sisu», un termine usato per definire il carattere, o forse l’animo dei finlandesi e che in questo caso indica l’estrema determinazione dei protagonisti nel fare fronte ad ogni avversità. Di cosa si tratta?
Una volta ho chiesto a mia nonna cosa rappresentasse esattamente il «sisu». E lei ha risposto: «È ciò che ha battuto i russi nella Guerra d’inverno». La Russia era almeno sessanta volte più grande della Finlandia nel 1939, eppure i finlandesi hanno combattuto l’Armata Rossa fino a fermarla: l’unico paese dell’Europa orientale in cui ciò è accaduto. Quando ero bambino, se cadevo e mi sbucciavo un ginocchio e iniziavo a piangere, mia madre sibilava: «Dov’è il tuo sisu? Alzati». Una volta mi sono rotto una gamba e mia madre mi ha guardato zoppicare per tre giorni prima di portarmi dal dottore, solo per assicurarsi che il mio sisu fosse all’opera. «Sisu» è qualcosa che trovi dentro di te, qualcosa di molto più complesso del semplice essere «duro», «forte». Un’idea che è anche alla base di un celebre detto: «I finlandesi non si spaventano, si arrabbiano».

In «Matterhorn» emergeva l’ombra del mito di Parsifal, in «Deep River» di quelli contenuti nel Kalevala, la raccolta di poemi antichi che costituisce la base delle tradizioni culturali finlandesi. A cosa si devono queste scelte?
All’inizio degli anni Cinquanta, avevo circa sei o sette anni, ho visto due vecchi cantanti tradizionali che si abbracciavano e si guardavano ferocemente negli occhi, mentre cantavano «le vecchie canzoni». Probabilmente stavano cantando dei brani tratti dal Kalevala. Una scena che mi è rimasta impressa. Più tardi, verso i vent’anni, ho avuto la fortuna di essere ammesso a un seminario sulla dizione poetica dell’antico norreno a Oxford. È stato allora che ho iniziato ad apprezzare quell’epopea, insieme a molte delle antiche saghe e mitologie dell’estremo nord dell’Europa. I finlandesi non possono contare su di un pantheon simile a quello di svedesi o norvegesi, ovvero i vari Freya, Thor, Odino: si ipotizza che i personaggi del Kalevala siano rielaborazioni folkloriche delle figure sciamaniche della loro religione tradizionale. Quanto al mio rapporto con il mito, sono convinto che le antiche costruzioni mitologiche riflettano molti aspetti dello sviluppo psicologico e spirituale condivisi da tutti gli esseri umani. Ad esempio, Parsifal, è un mito che riflette le prove e le sfide affrontate dai maschi che crescono. Me ne sono reso conto mentre scrivevo Matterhorn che, nel contesto della Guerra del Vietnam, racconta di giovani che cercano di crescere in circostanze difficili. Al fondo di questi miti c’è una sorta di saggezza distillata attraverso il tempo: il frutto di momenti difficili e lezioni costate caro. E i miei romanzi parlano sempre di tempi duri e delle lezioni apprese a caro prezzo dai personaggi. Così, evocando attraverso le vicende dei protagonisti delle mie storie il portato universale della mitologia, sento che i lettori possono non solo arricchirsi emotivamente, identificandosi fino in fondo nelle sorti di qualcun altro, ma anche legarsi inconsciamente a tutti coloro che hanno vissuto su questa terra prima di loro.