È da poco iniziata a Venezia, a Palazzo Vendramin Grimani, la residenza artistica di Karine N’guyen Van Tham e Parul Thacker, due artiste ospitate dalla Fondazione dell’Albero d’Oro nella sua sede appena restaurata del palazzo di San Polo. Le loro opere, alcune delle quali site-specific per i magnifici ambienti del palazzo, saranno il fulcro di Per non perdere il filo. Karine N’guyen Van Tham – Parul Thacker, (dal 20 aprile a cura di Daniela Ferretti, Evento collaterale della 60/a Biennale d’arte).

N’guyen Van Tham (1988), francovietnamita che vive in Bretagna, e Thacker (1973), indiana di Mumbai, sono a Venezia per la prima volta e convivono fra loro in una residenza che prevede anche l’esposizione dei loro lavori recenti. Entrambe provenienti da una dimensione artigianale divenuta poi artistica hanno in comune una manualità spinta, quasi sperimentale che le porta a dare valore oltre che all’opera in sé al processo che la genera.

Karine N’guyen Van Tham è bambina quando chiede alla madre di poter spostare la veste blu di un familiare appena scomparso. Racconta che il suo lavoro forse è iniziato allora. La madre glielo proibisce, perché, le dice, la veste per ora deve restare lì, ferma. Da quel momento si fa strada in lei la riflessione e la visione potenziale di cosa possa essere un vestito che nel quotidiano è solo un elemento che ci protegge e che ci dà un’identità. Ne scopre la dimensione sacra, è visibile e si tocca ma ha anche valore invisibile dato dal prolungamento dell’essere che lo ha abitato: la memoria, l’odore, la forma, la vita di chi lo ha posseduto, di chi lo ha vissuto.

«Per non perdere il filo», Karine N’guyen Van Tham, Fondazione dell’Albero d’oro, © Andrea Avezzù

Scopre poi, N’guyen Van Tham, che lo stesso vale per oggetti sui quali l’impronta umana, ma anche del tempo, si sedimentano. I lavori diventano sorta di materassi artigianali sui quali le mani operano senza sosta. Tinge (con colori naturali), dipana e ricama, li modella come fossero sculture, impuntura gli strati con piccoli punti radi ma regolari, fermando così la lana all’interno. Lana che, dalla Bretagna dove ha l’atelier, «proviene – racconta – da animali che fanno una buona vita, senza sofferenza. Anche nella materia c’è memoria: l’odore forte della lana, le impurità, l’untuosità ce lo ricordano». Il sacro è qui anche nella danza di movimenti necessari per trasformare la materia.

La genesi e lo svolgersi del processo tecnico volto alla colorazione, all’invecchiamento e al ricamo sono anch’essi parte del processo artistico poiché – dice – «l’opera non è solo quel che si vede ma anche il prodotto di quel che è avvenuto, attraverso un corpo che si è mosso». N’guyen Van Tham tesse a mano con un piccolo e antico telaio in legno, le sue stoffe e le trasforma in abiti: suo primo capo da muro è Ceremonie lunaire, ispirato ad un kimono. Sarà esposto in uno dei saloni di Palazzo Vendramin in modo da prendere tanta luce: il processo di trasformazione non si ferma mai e il colore sbiadirà per il riverbero luccicante dell’acqua veneziana. Karine si muove in sintonia con le stagioni e di fronte alle armature/vesti e agli elmetti intarsiati di scaglie di pigne racconta che «è indispensabile lavorarle d’inverno quando fa molto freddo: quando sono gelate si buttano di colpo nell’acqua bollente, allora riesco a bucarle senza che si rompano e così riesco a cucirle una accanto all’altra. Questa armatura è rossa come il sangue che rimane nei campi di guerra. Il sangue si è seccato ma la memoria del dolore è qui».

Parul Thacker, da Mumbai si rifugia periodicamente e per lunghi periodi nell’Ashram di Sri Aurobindo a Pondicherry, nell’India del sud, dove soggiorna nel dormitorio di Golconde. È questo il primo edificio modernista in cemento armato dell’India; disegnato da Antonin Raymond, architetto franco-nipponico, conserva una forte atmosfera giapponese che Parul ama. «Durante la meditazione spogliamo, per esempio, i fiori dai petali per poi redisporli in grandi mandala», spiega, del tempo nell’Ashram. A giugno dell’anno scorso parte per una residenza-spedizione nell’Oceano Artico, nelle Isole Svalbard. Disegna moltissimo: settanta strati di disegno tradotti – col ricamo – su grandi teli di garza di seta proveniente da Benares, un materiale traslucente che – racconta Thacker – abbiamo lavorato contemporaneamente sui due lati: avevamo grandi lenti per ingrandire e una macroproiezione del totale. Sono delle mappe in cui metto moltissime informazioni. Sono alla fine, per il fatto di essere ricamate da entrambi i lati, quasi degli ologrammi». L’androne del palazzo di San Polo, ampio e luminoso con ingresso sul Canal Grande, accoglierà le tele, leggerissime e ricamate, mentre sulle pareti si rifletterà il movimento dell’acqua.

Un sonoro composito – il suono dell’acqua di Venezia, tracce audio del mare Artico e la melodia del Rudra Veena (antico strumento indiano a corde) avvolgerà i visitatori. Al piano nobile di palazzo Vendramin, nella Sala detta delle Quattro Famiglie per i finissimi stucchi di scuola ticinese presenti sul soffitto, Thacker proverà, disseminando oggetti sciamanici da lei molto amati come grumi d’oro, cenere e fuoco e pietre trovate nell’Artico, a dialogare con L’audience de l’empereur, grande arazzo in lana e seta prodotto alla fine del XVII secolo dalla Manufacture Royale de Beauvais, facente parte della Fondation Etrillard. I titoli sono lunghi e bellissimi (We Circle Through the Night, Consumed By Fire Portal 01Giriamo in tondo nella notte consumati dal fuoco Portale 01) e nelle didascalie si scoprono i suoi materiali: pietre dalle caverne himalayane, pigmenti di grafite, fuoco, foglia e polvere d’oro, concrezioni naturali, cristalli, ricami con tecnica Zardosi, eliotropio e rubino naturale, fibra di monofilamento di nylon e cenere di canfora.