Lahore è il centro della politica, dei militari, della burocrazia e ultimamente dell’estremismo islamico. C’è una vecchia e bellissima moschea, chiamata Badshai, e c’è l’inconfondibile impronta dell’etnia dominante, quella degli industriosi, intelligenti, ambiziosi punjabi.

Peshawar, nel nordovest, è per metà Afghanistan. E’ la capitale dei pashtun pakistani, una città ancora piena di rovine dell’era buddhista nella quale hanno fatto i loro primi passi quelli che sarebbero diventati prima i mujaheddin antisovietici, poi i Taliban. Ci si respira un’ aria di Asia Centrale, di avventure sulla Via della Seta, che a tratti diventa pesante e paurosa, un’aria di attentanti e tradimenti inconfessabili; non per niente ci hanno vissuto a lungo Osama bin Laden e il suo mentore e iniziatore del percorso che ha portato al 9/11, il predicatore palestinese Abdullah Azzam. Islamabad, la capitale progettata da architetti europei, non ha una sua anima ma è ai piedi delle Margalla Hills, dalle quale anche nei periodi più caldi – quando la temperatura supera i 40 gradi – scende una piacevole brezza.

Le ho frequentate tutte, le ho amate e odiate tutte, ma forse quella che più rappresenta il Pakistan, nel bene e nel male è l’ enorme, complicata, moderna, tribale e pericolosa Karachi. C’ è la Borsa più importante del Paese, ci sono le grandi banche straniere (oggi soprattutto arabe, in passato anche europee e americane), ci sono le grandi madrasa che ospitano gli estremisti dell’internazionale islamica del terrore, ci sono le femministe che guidano la macchina e indossano jeans, ci sono alcuni dei giornali più importanti del Paese – l’ antico Dawn e il nuovo Express Tribune – ci sono i gruppi politico-criminali, ci sono i militanti del Muttaida Quami Movement (MQM) che pattugliano armati le strade che portano al loro quartier generale. Ci sono i pescatori, che per poche rupie ti portano a fare un giro sull’Oceano sulle loro barche scassate e colorate.

A una mezz’ora di macchina c’è il santuario sufi di Mangupir, dove un vecchio prete vestito di verde fuma in continuazione hashish e si occupa di una cinquantina di grassi coccordilli che per qualche imperscrutabile ragione sono considerati sacri. Sulle mura mezze diroccate del vicino villaggio, ho visto per la prima volta i poster che ritraggono una Benazir Bhutto santificata dopo che assassini ancora ignoti – e sui quali girano ipotesi mostruose, come quella che sia stata uccisa per ordine del marito e attuale Presidente della Repubblica Asif Ali Zardari – hanno messo fine alla sua vita. Già, perché Karachi è anche la città della sua famiglia, del fondatore della dinastia e padre di Benazir, Zulfikar Ali Bhutto, che ha avuto una grande influenza su tutto quello che è successo nel Paese dal 1970 in poi.

Oggi Karachi ha oltre 23 milioni di abitanti è una delle Grandi Metropoli del terzo mondo. La sua storia è confusa e tragica ma anche esaltante e romantica.
Muhammad Ali Jinnah, il visionario intellettuale che volle una patria separata per i musulmani in risposta alle discriminazioni subite ad opera della classe dirigente hindu, nacque, nel 1876, proprio a Karachi. La città fu scelta come capitale del nuovo paese, nato con un parto estremamente doloroso dall’Impero britannico in agonia. La nuova patria dei musulmani indiani si sarebbe chiamata Pakistan: una parola che nasce dai nomi delle regioni che avrebbero dovuto farne parte (Punjab, Afghanistan, Kashmir, Sindh e «tan» per Baluchistan) e allo stesso tempo significa «paese dei puri». Guardando al Pakistan attuale, riesce difficile credere che il suo fondatore fosse un laico amante del wishky e dei piaceri mondani.

Gli integralisti musulmani lo odiavano e disprezzavano il suo Pakistan che, dicevano, sarebbe stato null’altro che un «paradiso degli sciocchi». Jinnah era un modernista, ammiratore dell’Occidente che guardava con fastidio i superstiziosi bramhini (tra quali annoverava Mohandas Gandhi, il mahatma). La nuova Karachi, la moderna metropoli pakistana, crebbe a sua immagine e somiglianza. Fu la prima città ad industrializzarsi, fu la culla degli intellettuali ribelli e del nascente capitalismo autoctono.

Da piccolo villaggio di pescatori, la città era stata trasformata in un importante centro per il commercio con l’Europa e con i paesi arabi in un processo iniziato nel diciottesimo secolo dalla dinastia dei Khan di Kalat e completato dai britannici che, resisi conto della sua importanza, la conquistarono nel 1839. I musulmani indiani che abbandonarono i loro paesi di origine per sfuggire all’oppressione hindu, si diressero in massa verso Karachi. Li chiamavano mohajirs (immigrati) e il loro arrivo era destinato a cambiare per sempre la storia della città.

I mohajirs erano professionisti, intellettuali, scienziati. Nella giovane società pakistana rappresentavano la parte più dinamica e progressista. La classe dirigente locale era infatti era composta dai latifondisti del Sindh e del Punjab, regioni nelle quali la schiavitù (nella forma del cosiddetto bonded labour) non è mai stata completamente eliminata. Una classe dirigente feudale, che aveva fatto l’abitudine al potere assoluto. Ancora negli anni novanta furono scoperte alcune prigioni private nelle quali i latifondisti si sentivano autorizzati a rinchiudere per punizione i loro «sudditi». Oltre ai mohajirs, arrivarono nella città decine migliaia di contadini del Sindh, e del Baluchistan.

Il numero dei pashtun, poi, non ha fatto che crescere in seguito alle varie guerre in Afghanistan e alle loro propaggini nelle aree tribali di confine. La crescita della popolazione è un buon indicatore della rapida trasformazione di Karachi: 435mila abitanti nel 1941, oltre un milione nel 1951, nove-dieci milioni all’inizio degli anni novanta e su, fino ai 23 milioni del 2012.

Fin dalla sua nascita, il Pakistan è stato dominato dalle «grandi famiglie» del Punjab e, in parte, del Sindh e della Provincia della Frontiera di Nordovest (oggi ribatezzata Kybher-Pakhtunkhwa) e la città dei mohajirs non poteva restare a lungo la capitale. Islamabad fu creata apposta, a cavallo tra il Punjab e la Frontiera. Mentre i punjabi ed i pashtun si assicuravano un ferreo controllo sull’esercito e sulla burocrazia – i veri pilastri del potere in Pakistan – i mohajirs facevano carriera nel settore privato e nelle professioni. La società era rimasta fondamentalmente tribale: i diversi gruppi etnici restavano chiusi in se stessi, cercavano di occupare quartieri e professioni e ciascun gruppo si dotava della sua milizia armata. L’esplosione non poteva tardare.

I mohajirs trovarono la loro espressione politica nel Mohajir Quami Movement (MQM), un partito nato dal movimento studentesco di Karachi. In pochi anni, a partire dalla metà degli anni settanta, l’MQM e il suo indiscusso leader Altaf Hussein minarono alla base l’ egemonia dei Bhutto e del loro Pakistan Peoplès Party (PPP) sulla metropoli. Si dice che in questo siano stati aiutati dall’esercito e dal dittatore Zia ul-Haq, che aveva arrestato e fatto impiccare Zulfikar Bhutto dopo un processo-farsa. In pochi anni Altaf e i suoi riuscirono a mettere in piedi una delle più formidabili organizzazioni di guerriglia urbana che siano mai esistite. Dal 1992 Altaf vive in esilio a Londra, dato che l’ esercito lo considera il responsabile dell’umiliazione di tre dei suoi ufficiali, fatti prigionieri e torturati dai guerriglieri dell’MQM e, come ha dichiarato uno dei suoi collaboratori, «non vuole fare la fine di Bhutto».

Oggi la giustizia britannica lo sospetta di avere avuto qualcosa a che fare con l’assassinio del suo ex-numero Imran Farooq, che si era allontanato dall’organizzazione e stava probabilmente progettando una carriera politica autonoma, forse d’accordo con l’ex-dittatore Pervez Musharraf (anche lui un mohajir). Ciononostante, la sua influenza sulla scena politica di Karachi rimane fortissima.

Nel 1995 andai a Karachi per coprire la spaventosa ondata di violenza che era arrivata a colpire tre impiegati del locale Consolato americano. Era la classica goccia che, anche grazie alla nazionalità delle vittime, aveva fatto traboccare il vaso: nel 1994, infatti, nella metropoli erano morte di morte violenta 1882 persone. Inoltre, si erano verificate 2006 rapine ed erano state rubate circa duemila automobili, secondo i calcoli di un autorevole giornale locale.

Nei primi mesi dell’anno seguente il crescendo continuò, fino all’agguato contro gli americani. In quell’avventura giornalistica ebbi due compagni eccezionali: Tiziano Terzani e l’allora corrispondente dal New York Times dal subcontinente John Burns. Su Tiziano, col quale ci frequentavamo già da qualche anno, c’è poco da dire che già non si sappia. Era un grande giornalista e una grande persona. Quanto a John, è uno dei migliori professionisti che ho conosciuto, in seguito ha aperto gli uffici del suo prestigioso giornale a Kabul e a Baghdad prima di trasferirsi a Londra, dove vive tuttora.

Spesso andavamo insieme in giro per una metropoli fantasma, con le strade deserte e i punti caldi vigilati non dalla polizia o dall’esercito ma dagli uomini dell’MQM (che allora era il Mohajir Quami Movement, movimento di liberazione dei mohajir, prima di allargare il suo orizzonte politico sostituendo alla parola mohajir quella muttaida, che vuole dire, più o meno, «unitario»).

Fu John a riassumere la situazione dopo qualche giorno di lavoro: «è come Chinatown – disse mentre ci rilassavamo davanti ad una tremenda birra islamica (cioè senza alcool) – più ci vai dentro e meno ci capisci!».

La violenza aveva cominciato ad impossessarsi di Karachi gradualmente, all’inizio degli anni Novanta. Nel 1992, il governo di Islamabad fece intervenire l’ esercito per mantenere l’ordine pubblico in una sorta di legge marziale non dichiarata. I soldati spararono, arrestarono e torturarono ma non riuscirono a mettere fine alle sanguinose incursioni di quelli che la stampa definiva «unidentified gunmen», uomini armati non identificati, dei macabri fantasmi incappucciati che apparivano e scomparivano sui loro velocissimi motorini.

Spesso il senso di quei massacri sfuggiva. Tutto ciò che si è riusciti a capire col passare degli anni è che erano il frutto degli scontri tra bande criminali e/o milizie etniche, oppure ancora tra estremisti religiosi di diverse fazioni, che si sovrapponevano e si confondevano nel calderone sociale ed etnico di Karachi. I servizi segreti dei Paesi che hanno interessi in Pakistan, in primo luogo l’ Iran sciita e l’ Arabia Saudita sunnita-wahabita, non mancavano di aggiungere a quel caos le loro contorte trame. Scemata l’ emozione per l’ attacco agli americani (due morti e un ferito grave, che in seguito si è ripreso) si attenuò anche l’interesse per la metropoli pakistana, dove la mattanza proseguì fino all’anno seguente quando l’ allora ministro dell’interno generale Nasirullah Babar, un pashtun fedelissimo dei Bhutto, riuscì ad infliggere dei duri colpi all’ala militare dell’MQM e alle altre bande che scorrazzavano per la città.

Per la metropoli, la svolta venne nel 1997, quando salì al governo con un incruento colpo di Stato il mohajir Musharraf. Dopo gli anni di alternanza al governo tra Benazir Bhutto e Nawaz Sharif, caratterizzati dall’inefficienza e dalla corruzione, il generale riuscì in un primo momento a rassicurare imprenditori locali e banchieri stranieri, e strinse un’ alleanza politica con l’ MQM, la cui forza politica era rimasta intatta nonostante il ridimensionamento della sua struttura militare. Per un breve periodo, Karachi apparve destinata a riprendere il suo ruolo di locomotiva industriale, finanziaria e culturale del Paese. Con il tramonto di Musharraf e il fallimento delle sue velleitarie politiche – basate sostanzialmente sull’opportunistica illusione di modernizzare il Paese senza toccare i privilegi dell’elitè e continuando ad usare gli estremisti islamici come uno dei principali agenti di politica estera – è svanito anche il sogno di una rinascita di questa metropoli.

Ha scritto su Dawn l’ editorialista Nadeem F.Paracha: «la nuova esplosione di violenza suggerisce che sotto la relativa calma durata quasi un decennio, stava nascendo un nuovo mostro…». Un mostro che si è nutrito della continua migrazione dalle aree tribali pashtun e dal Baluchistan, sconvolto da una guerra civile a bassa intensità e da una crisi economica che ha devastato il tessuto sociale della metropoli.

Le violenze di strada sono riprese in un caos che ricorda quello del 1995. Morti a grappoli, blocchi stradali, cavalli di frisia davanti agli alberghi di lusso. Karachi è ancora una volta preda degli uomini armati non identificati. Immigrati pasthun contro mohajir, estremisti sunniti contro gli sciiti, bande sempre meno politiche e sempre più criminali contro tutti nel tentativo di arraffare un po’ della poca ricchezza che rimane nella città. Una città sfortunata, continuamente in bilico tra decollo e decomposizione, una metropoli caotica e affascinante, vitale e violenta come il Paese del quale è stata la prima capitale.